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Come d’abitudine alla vigilia di Natale, cioè in quella fase che precede lo scatenarsi della furia degli acquisti in ogni comune cittadino, la macchina del marketing si mette in moto, dispiegando i suoi potenti mezzi per indurci ad acquistare e sollevarci dall’eventuale “senso di colpa” per acquisti eccessivi, inutili o troppo costosi. Niente di nuovo, si dirà.

Come d’abitudine alla vigilia di Natale, cioè in quella fase che precede lo scatenarsi della furia degli acquisti in ogni comune cittadino, la macchina del marketing si mette in moto, dispiegando i suoi potenti mezzi per indurci ad acquistare e sollevarci dall’eventuale “senso di colpa” per acquisti eccessivi, inutili o troppo costosi. Niente di nuovo, si dirà.

E invece qualcosa di nuovo c’è: forse sarà per lo stato di crisi, che induce ad una speciale parsimonia, o forse perché il marketing delle grandi imprese ha ormai imparato a servirsi dei medesimi argomenti e modalità espressive della critica alla società consumistica, sta di fatto che quest’anno le operazioni di marketing natalizio appaiono particolarmente aggressive e mirate. Lo conferma l’ascolto di una pubblicità radiofonica che circola in questi giorni e che punta a riabilitare e a proporre come modello la figura che sociologi e psicologi hanno definito shopping victim. La pubblicità è costituita da null’altro che un breve monologo di una voce femminile (ovviamente sono le donne il target preferito, il terminale ritenuto più sensibile al richiamo delle sirene del consumo sfrenato), che si autodichiara orgogliosamente una shopping victim: tale definizione, infatti, non è condivisa dalla parlante, che evidenzia subito come questa sia un’etichetta data da altri e quindi non accettabile. Il tono di voce manifesta con efficacia un fastidio che è presto spiegato: alla shopping victim si associa di solito l’immagine di un soggetto arrendevole, spesso in modo irragionevole, verso consumi vistosi e superflui, mentre – ci informa la voce femminile – essa è piuttosto una persona leader nei consumi, in grado di distinguersi dalla massa per la capacità di anticipare le mode e le tendenze, se non proprio di crearle ed imporle.

Peccato però che lo shopping compulsivo e la dipendenza dai consumi che caratterizzano la shopping victim siano riconosciute ufficialmente come gravi patologie, assimilabili al gioco d’azzardo e alla dipendenza da sostanze, e, quindi, da non sottovalutare. Un marketing sempre più spinto ha convinto molti individui che il possesso di un prodotto sia sinonimo di benessere interno ed esterno e, quindi, di felicità. Tale fenomeno complica inesorabilmente la vita di molte persone che prendono ad acquistare oggetti non indispensabili, spesso senza tener conto delle proprie disponibilità finanziarie e credendo di trovare così sollievo al proprio disagio interiore.

Ma anche senza giungere a simili eccessi un tale messaggio non si distingue per promuovere un approccio “corretto” ed equilibrato ai consumi, la cui mancanza è stata individuata come una delle principali cause della crisi economica planetaria. A nessuno sfugge l’abilità del ragionamento pubblicitario, che ribalta completamente gli argomenti dei critici dell’iperconsumo. Ma un po’ di sana consapevolezza va esercitata anche in tempo di acquisti natalizi, ricordando anche il significato autentico del Natale. L’atto che espletiamo ogni giorno e che, ancor più in tempo di festa, ci porta a consumare beni materiali e immateriali non è un fatto neutro ma un agire sociale dotato di senso. Nella società attuale siamo anche inconsapevolmente guidati e talvolta fuorviati nelle nostre scelte da un marketing molto efficace e da un onnipresente apparato pubblicitario. Tuttavia, agendo sui meccanismi di mercato, si può tentare di attenuare o addirittura risolvere alcuni gravi problemi che affliggono il mondo, in modo tale che i consumi, oltre a soddisfare i nostri bisogni vitali e le nostre legittime esigenze di benessere, possano tradursi per tutti in progresso civile, sviluppo armonico e qualità della vita. Assumere quest’ottica significa promuovere una cultura del consumo consapevole della propria responsabilità negli equilibri sociali, economici ed ambientali a livello planetario, che si traduce in arricchimento collettivo e restituisce centralità alla persona nel campo dell’economia e dei consumi. Consumare in questo spirito non significa rinunciare od opporsi a tutte le forme di consumo, ma significa anzitutto consumare meglio e capire che spendere soldi implica potere e responsabilità, che si esercitano anche stabilendo delle priorità, abbandonando alcune opzioni o lasciandole inesplorate, spezzando lo schema e la teoria infinita dei desideri fini a se stessi, dei capricci estemporanei o delle false rappresentazioni. Il contrario di un comportamento compiuto con leggerezza e irriflessivo. In questa luce, un gesto talvolta accusato di irrazionalità economica si rivela un atto dotato di forte razionalità sociale: perseguire, anche nel comportamento di consumo, valori etico-sociali (che proprio il Natale dovrebbe ricordarci) e non abbandonarsi al consumo tanto per consumare (o, peggio, per rincorrere il falso mito di uno stile di vita proposto da altri, di una identità sociale considerata accettata e gradita) rivitalizza un desiderio di partecipazione, che trasforma quell’atto in un comportamento individuale che tende a un interesse generale. Ed è di questo che oggi abbiamo soprattutto bisogno, con buona pace delle shopping victim della pubblicità.

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