Abbiamo convissuto negli ultimi decenni con una politica indirizzata al sostegno della produzione senza l’attenzione necessaria al miglioramento della catena alimentare e con logiche economiche secondo le quali la distruzione delle eccedenze serve a proteggere il prezzo: il prezzo, non il valore del cibo.
Ma oggi la portata dello spreco alimentare nel mondo non si può ignorare. Si tratta di un problema di proporzioni macroscopiche che trova una messa a fuoco quantitativa e qualitativa in iniziative di ricerca recentissime. Lo spreco di cibo è un grave problema che interessa i paesi industrializzati lungo tutta la filiera produzione-distribuzione-consumo e che porta nella spazzatura cibo in perfette condizioni per essere ancora mangiato. Lo ha evidenziato uno studio commissionato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. Il documento Global food losses and food waste, commissionato dalla FAO, mette in evidenza che per motivi diversi, i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo sprecano più o meno la stessa quantità di alimenti, rispettivamente 670 e 630 milioni di tonnellate di cibo. Nei paesi in via di sviluppo le perdite alimentari (40%) avvengono nella prima fase della filiera, quella della produzione, a causa di scarsa tecnologia e carenza di infrastrutture, mentre nei paesi industrializzati più del 40% delle perdite si hanno nel passaggio tra rivenditore e consumatore. I dati che sono emersi fanno riflettere sull’enorme contraddizione tra spreco e povertà!
Ogni ora e mezza la popolazione mondiale spende più di 45 milioni di euro per diete dimagranti, mentre più di 1500 persone muoiono per fame. Ma forse il dato più rilevante riguarda quello che facciamo quando abbiamo finito di mangiare, cioè quando buttiamo gli avanzi nella spazzatura. Nella stessa ora e mezza la popolazione mondiale produce 270 mila tonnellate di rifiuti, rifiuti che finiscono negli oceani e perfino nell’atmosfera. Così, da qualche parte nel mondo, animali e uccelli ignari scambiano particelle di rifiuti non biodegradabili per cibo, e muoiono nel tentativo di nutrirsi.
Ma quanti di questi rifiuti si potrebbero evitare lungo il percorso alimentare e soprattutto, quanti di questi rifiuti sono cibo buono da mangiare?
Nel libro di Tristram Stuart, ricercatore di Cambridge, “Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare”, pubblicato di recente, si legge:
“I negozi e i ristoranti italiani hanno a disposizione l’80% di cibo in più rispetto al fabbisogno alimentare della popolazione, di cui la maggior parte viene sprecata sotto forma di pane non mangiato, cibo avanzato nei piatti e sacchi di immondizia pieni dei prodotti dei supermercati.”
Per non parlare delle tonnellate di cibo non venduto nei supermercati, cibo che non può essere utilizzato neppure per la nutrizione animale (lo vieta una norma UE) e non può essere regalato ai poveri se non tramite associazioni e organizzazioni specializzate e riconosciute, perciò nella maggioranza dei casi viene buttato”.
La Coldiretti conferma che restano invenduti nei retrobottega 240 mila tonnellate di alimenti per oltre 1 miliardo di euro che potrebbero sfamare 600.000 cittadini con tre pasti giornalieri per un anno. Venti milioni di tonnellate di cibo ancora consumabile e 250.000 tonnellate di carne
finiscono ogni anno tra i rifiuti. Tutto ciò determina un ulteriore spreco di oltre un quarto del consumo totale di acqua dolce e oltre 300 milioni di barili di petrolio all’anno (Kevin D. Hell).
Non si tratta infatti solo di perdita di alimenti, ma di un aggiuntivo dispendio del bene più prezioso, quello dell’acqua, che sta generando un altro preoccupante allarme. Una semplice bistecca, con contorno di patate, una manciata di ciliegie e caffè costa il consumo di oltre 5000 litri d’acqua.
Nel 2010, solo nel nostro Paese, sono state gettate via 2.719.242 tonnellate di frutta, 193.417 tonnellate di carne, 422.840 tonnellate di latte e formaggi e 9.615 tonnellate di pesce. Per fare qualche esempio, 177 mila tonnellate di mele buttate sono state coltivate con 124 milioni di metri cubi d’acqua; 3,5 tonnellate di pomodori equivalgono anche ad un dispendio idrico di 644 milioni di metri cubi d’acqua e 3,4 milioni di tonnellate di olive coltivate e gettate, costano 6,5 miliardi di metri cubi d’acqua. Allora viene voglia di fare due conti: nel 2010 sono stati sprecati in Italia 12,6 miliardi di metri cubi d’acqua per non aver raccolto 14 milioni di tonnellate di prodotti agricoli.
Nelle famiglie europee non è diverso: ogni anno in Germania finiscono nell’immondizia 20 milioni di tonnellate di cibo, in Gran Bretagna solo le famiglie buttano via 6,7 milioni di alimenti perfettamente commestibili, in Danimarca i nuclei di 4 persone producono cibo scartato per 2,3 miliardi di dollari, in Svezia viene scartato il 25% del cibo acquistato in famiglia. Troppo benessere o incoscienza?
E’ un’insostenibile contraddizione, afferma la FAO già nel 2009: una ridistribuzione più equa delle risorse alimentari potrebbe significare più cibo per tutti (servirebbe a sfamare il doppio della popolazione attuale!) e la riduzione dello sperpero porterebbe benefici a tutto il pianeta.
Un valido contributo che offre approfondimenti quantitativi e qualitativi sulla situazione dello spreco di cibo è raccolto nel Libro nero dello spreco alimentare,di Andrea Segrè, Preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, in collaborazione con Luca Falascani, ricercatore. Il merito di questo studio sta non solo nell’aver approcciato il problema dello spreco nella sua forma macroscopica, ma di avere per la prima volta individuato le variabili che contribuiscono a generarlo ed a quantificarle con una stima aggiornata. Se non si scompone il sistema nelle sue fasi, diventa difficile individuare le aree per possibili interventi e si rischia di affrontare il problema con inutile spirito di denuncia. I soggetti coinvolti lungo tutta la filiera sono diversi e lo studio di Segrè li rammenta tutti, sezionando lo spreco e valutandolo come impatto economico, ambientale, nutrizionale e sociale ed affrontando aspetti finora poco sfiorati e poco documentati.
Nella Dichiarazione congiunta presentata nella conferenza “Tranforming food waste into a resource” tenutasi a Bruxelles il 28 Ottobre 2010 ci si propone l’impegno di ridurre la quantità di spreco alimentare del 50% entro il 2025. Si chiede anche che la riduzione diventi un elemento essenziale di tutte le politiche agricole e si fa appello alle Nazioni Unite affinché la lotta contro lo spreco alimentare venga inserita come obiettivo supplementare all’interno del 7° obiettivo degli Obiettivi del Millennio (“Assicurare la sostenibilità ambientale”). “Se il 2010 è stato l’anno europeo della povertà, il 2011 deve essere l’anno europeo contro lo spreco alimentare” afferma Paolo de Castro, Presidente della Commissione agricoltura del Parlamento europeo.
Le iniziative volte ad arginare il fenomeno soprattutto sul fronte del recupero di risorse alimentari ci sono, dal Banco Alimentare alle varie associazioni di carità, con lo scopo di coinvolgere tutti gli stakeholders a favore del bene comune.
Esistono anche progetti di recupero come quello di Last Minute Market, iniziativa sociale nata da un gruppo di ricercatori e trasformatasi in uno degli esempi di realtà imprenditoriale con l’obiettivo di raccogliere e ridistribuire le eccedenze e di trasformare lo spreco in risorsa. Nei dati raccolti attraverso Last Minute Market si scopre che nelle mense delle scuole italiane si butta via dal 13 al 16% di cibo rispetto agli acquisti. Secondo i dati ADOC le famiglie italiane sprecano circa il 17% del prodotto ortofrutticolo e il 35% di latte, uova, carne e formaggi. In sintesi questi dati, aggiunti a un’informazione al consumatore che favorisce falsi bisogni indotti e cattive abitudini al consumo, sono la prova di una assurda gestione del cibo.
Ma come sostiene lo stesso Segrè, “l’azione di Last Minute Market, come quella di altre associazioni, sono improntate ad una logica solidaristica non certo in grado di incidere sulle cause della situazione. Bisogna lavorare sulla mentalità delle persone”.
Al vertice mondiale sull’alimentazione è stato deciso di aumentare la produzione agricola/alimentare del 70%, ma non è stato deciso nulla a proposito dell’efficienza della catena alimentare. Si possono ipotizzare strategie, individuare le barriere del mercato e intervenire a tutti i livelli per migliorare la situazione.
La necessità di promuovere attività di formazione, informazione ed educazione nelle scuole si aggiunge all’educazione al consumo. Formazione significa inoltre sensibilizzazione a tutti i livelli della filiera, promuovendo l’impegno politico a sostenere i progetti di riduzione dello spreco per una vita più sostenibile e consapevole.
Se Consumare può significare “distruggere” ma anche “portare a termine”, il consumerismo insegna che è possibile fare qualcosa proprio al livello ultimo della catena, la sua destinazione, il consumatore. Le ricerche dimostrano che il consumatore sarebbe disposto ad acquistare prodotti che non mettono al primo posto l’apparenza, bensì il sapore e la sicurezza, ma nonostante questo, i cibi finiscono nella spazzatura. Non intraprendono neppure la strada della ridistribuzione poiché per l’attuale sistema essa risulta più costosa. I consumatori vengono incoraggiati ad acquistare più cibo di quanto in realtà avrebbero bisogno: promozioni, tre x due, porzioni eccessive, etc. Gli standard di qualità attribuiscono all’aspetto del cibo grande importanza, così che elevate quantità di cibo vengono scartate e buttate durante il percorso dalla produzione alla distribuzione solo per un fatto estetico.
Secondo la FAO i consumatori potrebbero influenzare gli standard di qualità alimentare e dovrebbero farlo; si dovrebbe insegnare loro che “buttare via il cibo senza motivo è inaccettabile. Dovrebbero essere informati anche della disponibilità limitata delle risorse naturali e che è più efficace ridurre le perdite di cibo che incrementare la produzione alimentare per riuscire a nutrire la crescente popolazione mondiale”. Certo non è facile nella società in cui viviamo, ma a volte poche misure quotidiane e una maggiore attenzione possono davvero aiutare a migliorare la situazione, attraverso l’acquisizione di modalità di consumo attente e consapevoli. Consumare meno e solo quello che serve è una buona regola da applicare nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, lavarsi le mani, i denti, fare una doccia o fare la barba con il rubinetto sempre aperto oppure chiuderlo quando non serve vale una differenza del 50% sul consumo. Imparare a cucinare gli avanzi, fare una lista di prodotti utili prima di fare la spesa, per evitare di farci condizionare dalle strategie di vendita quando entriamo in un supermercato. Consumare meno e meglio è possibile, basta volerlo.
Viviamo in un mondo olistico in cui tutto converge su noi stessi, sul mondo che abbiamo deciso di consegnare ai nostri simili e ai nostri figli.