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Un saluto tra coinquilini nella tromba delle scale. Un sorriso ad una persona anziana che siede sola in un parco. Una cortesia tra i passeggeri sgomitanti dei mezzi pubblici. Spesso sono questi piccoli gesti quotidiani, queste gratuite forme di gentilezza che arricchiscono le nostre giornate, lasciandoci dentro un senso di pienezza e di gratitudine.

Basta poco e si origina un circolo virtuoso che male non può fare ad una società avvezza a lasciare indietro chi non tiene il passo dei suoi ritmi. La scortesia, invece, per riadattare una celebre massima, genera mostri, perché infonde quel senso di sfiducia e di indifferenza che si adagia nel profondo di ciascuno di noi, macchiando, talvolta in maniera indelebile, i nostri stati d’animo. A riprova di quanto la sgarbatezza sia deleteria per i nostri modi di vivere e di relazionarci agli altri, arriva da Vicenza la notizia secondo cui il sindaco ha emanato un’ordinanza che considera giuridicamente punibile le mancanze di gentilezza verso le fasce deboli della popolazione, e penso agli anziani, ai disabili, alle donne incinta: ogni forma di malcreanza può dunque essere sanzionata, d’ora in poi, nella cittadina veneta.
 
Non entrerò nel merito della liceità di questo provvedimento, né se esso possa rappresentare un’opportunità di restaurazione dei nostri declinanti costumi morali. Né mi spellerò gridando “O tempora! O Mora” nello scaricare sulla gioventù italica chissà quali gravi forme di ineducazione e inciviltà: del resto non credo sia così, giacchè, ringraziando il cielo, ci sono ancora tanti giovani (e non solo) che hanno conservato le buone maniere e che, al momento appropriato, sanno metterle in pratica. Oltretutto, vorrei ricordare per inciso il vitale ruolo educativo che istituzioni come la famiglia, e figure come ad esempio quelle dei nonni, possono svolgere, proponendosi quali “laboratori di esistenza” dove l’individuo impara – o quanto meno dovrebbe imparare – le regole della buona educazione e l’imprescindibilità del rispetto altrui.
 
Quel che infatti mi preme sottolineare è quanto faccia bene alla collettività una parola gentile, un gesto disinteressato, un comportamento empatico. La solitudine dei nostri tempi si combatte anche così, augurando il buongiorno, tenendo aperta la porta di un bar, cedendo il proprio posto a chi ne ha bisogno. Piccole vicende di vita quotidiana, nelle quali l’uomo, in senso lato, può manifestare appieno la sua bontà e la sua grandezza, elaborando una grammatica del convivere più umana e costruttiva. Lo stesso pontefice, Benedetto XVI, non molto tempo fa, ha ribadito la centralità della cortesia e dell’educazione nelle nostre relazioni, quale strumento di dialogo capace di avvicinare anziché dividere. Solidi mattoni dunque, in grado di pennellare d’azzurro il nostro animo e di aprirci positivamente all’altro.
E la strada di un ritorno alla gentilezza sembra essere oggi un argomento di ritrovato interesse, come testimonia l’imminente iniziativa che si terrà il 20 settembre a Torino dove verrà organizzata la “prima giornata mondiale del saluto”: l’obiettivo è quello di coinvolgere almeno 10mila volontari con il compito di salutare 10 persone sconosciute a testa, in modo tale da arrivare, a fine giornata, ad aver salutato 100mila persone.
 
Sarebbe bello se manifestazioni di questa portata potessero ingenerare un effetto domino tra le persone, rispolverando una vecchia abitudine, quella del saluto, che soprattutto nell’anonimato delle grandi città, sta scemando. I dati ci dicono che negli ultimi trenta anni i saluti quotidiani sono scesi da 30 a 8: una drastica riduzione a cui si accompagna un crescente isolamento, soprattutto tra i soggetti più deboli della cittadinanza. Riproporre allora questa cultura della vita, questa sana pratica del con-vivere può essere uno degli strumenti, – forse il più umile, forse il più immediato -, per edificare “dal basso” il Bene Comune.
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