Gli esperti dell’OMS parlano di “epidemia silenziosa”, che tocca soprattutto persone tra i 14 ed i 44 anni di età, specie nei Paesi dell’Europa orientale, e provoca fino a 800 mila suicidi all’anno. Per quanto riguarda l’Italia, i più recenti dati forniti dall’Osservatorio nazionale salute donna e dal Progetto Itaca mostrano un’incidenza del fenomeno su circa il 25% della popolazione (attorno ai 15 milioni di persone), con un rapporto di 2 a 1 tra donne e uomini.rn
Il fatto che tale disturbo sia indicato in costante aumento rende necessario l’interrogarsi sulle modalità per contrastarlo. Si dovrebbe quindi cominciare individuando correttamente le cause di questa malattia.
Va chiarito innanzitutto che lo scrivente non ha alcuna competenza medica, ma è particolarmente interessato a possibili causanti di natura sociale, visto che di mestiere fa il sociologo.
A parte la questione della competenza, non vi è qui neppure lo spazio per un’approfondita trattazione delle possibili origini del fenomeno depressivo. Mi limiterò a riconoscere la compresenza di causanti genetiche, accanto a quelle sociali. Non occorre essere esperti di sociologia per comprendere subito come la genetica sia una temibile rivale: più numerosi sono i comportamenti umani spiegabili grazie agli studi genetici, e più vicina il sociologo vede approssimarsi la disoccupazione.
Il tentativo di dare spiegazione fisiologica a fatti sociali non è nuova, e risale almeno a Lombroso, il quale come è noto riteneva che il delinquente fosse tale – chiedo venia per la semplificazione – a causa della configurazione del suo cranio. Vivesse oggi, Lombroso – autore di una saggio intitolato “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale” – potrebbe rispondere alla domanda sul perché alcune donne siano prostitute ed altre no proprio facendo riferimento alla genetica: si vede che hanno il gene delle prostituzione.
Tornando alla depressione, il fatto che nell’immediato futuro un disturbo dell’umore possa divenire la principale causa di malessere mi pare coerente con quanto scritto dal sociologo Beck nel suo fondamentale saggio “La società del rischio”: la società industriale non ha più al centro la questione ho fame, ma la questione ho paura.
Risolto il problema della pura sussistenza, si crea quel surplus di tempo per interrogarsi sul proprio umore. Se mi è permessa una battuta, cito Woody Allen: “quando ero bambino io, nel Bronx, eravamo così poveri che nessuno aveva tempo per suicidarsi”.
Ma gli Stati Uniti sono anche il Paese che ha sancito nella propria Costituzione il diritto di ogni essere umano alla ricerca della felicità. Naturalmente la felicità propria.
E la ricerca della propria individuale felicità è a mio giudizio strettamente connessa con la diffusione della depressione. E il tema della possibile o impossibile felicità solitaria porta ovviamente dritti al tema del bene comune.
Sulla scorta di analisi come quelle ad esempio di Bauman, penso di poter concludere che la nostra società dei consumi ha risolto il problema del “ disagio della civiltà”: oggi il soggetto non soffre perché vuole qualcosa che la società gli impedisce di avere. Al contrario, oggi qualsiasi esperto di comunicazione può dire che il cuore di ogni messaggio pubblicitario è l’appello al principio del piacere. Lungi dal censurare i tuoi istinti, la società di oggi ti istiga a consumare e divertirti più che puoi, ma sei tu che non ci riesci. Ed il pensiero che gli altri si divertano più di te è causa di depressione.
Comunque la si pensi, almeno una cosa mi pare indiscutibile: la cultura del nostro tempo, e quindi la società del tempo, è una perfetta macchina per produrre depressione.
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