Il promotore di giustizia Nicola Picardi, ovvero l’accusa, aveva richiesto tre anni ma con le attenuanti Gabriele è stato condannato a un anno e sei mesi e al pagamento delle spese processuali.
Ad essere profondamente differente dal nostro sistema giudiziario non è solo la particolare formula con cui si apre la lettura delle sentenze e che fa riferimento al potere assoluto del pontefice – che assomma in sé i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario – e al carattere sacro di questo stato.
A differenziarsi dal sistema giudiziario su cui si incardinano i processi al di qua delle Mura leonine, è l’adozione del vecchio codice Zanardelli, recepito dalla Santa Sede come propria fonte normativa con la firma dei Patti Lateranensi e rimasto, seppur con le dovute integrazioni per reati non contemplati, sempre in vigore in quanto ritenuto ben più garantista per la persona rispetto al Codice Rocco partorito in epoca fascista.
Non possiamo poi trascurare l’elemento rapidità: a fronte dei nostri processi che si trascinano per mesi e anni, a suon di eccezioni, rinvii e impantanamenti vari, il processo a Paolo Gabriele si è aperto e concluso in sole quattro udienze e in appena una settimana.
Efficacia del sistema giudiziario adottato, funzionalità del più piccolo stato al mondo, relativa semplicità del procedimento per le ammissioni di colpa del processato e, evidentemente, la volontà di chiudere in tempi rapidi questa storia. Oltretutto si tratta di un periodo assai importante per la Chiesa con il Sinodo dei vescovi in programma sino alla fine del mese, l’apertura dell’Anno della fede giovedì prossimo e la concomitanza con il cinquantesimo dall’avvio del Concilio ecumenico vaticano II.
Al termine dell’udienza Paolo Gabriele è stato accompagnato nella sua abitazione in Vaticano dove rimarrà ai domiciliari in attesa, formalmente, della destinazione a un carcere su territorio italiano, considerato che nello stato del papa non esistono strutture di reclusione.
Ma in realtà in questi giorni potrebbe arrivare la concessione della grazia da parte di Benedetto XVI, una eventualità che appare "molto concreta e molto verosimile", come ha confermato il direttore della Sala stampa vaticana padre Federico Lombardi.
Un potere che spetta al papa in quanto sovrano e che avrebbe potuto esercitare anche prima della celebrazione del processo. Il regolare svolgimento ha però consentito di dare seguito alla giustizia, cercando di sondare una vicenda assai complessa e per alcuni versi dai contorni ancora poco chiari.
Le quattro sedute, gli otto testimoni ascoltati, le perizie psichiatriche, l’istruttoria formale hanno permesso di mettere qualche punto fermo in quella emorragica fuga di documenti rinominata subito Vatileaks, sulla scia del recente Wikileaks.
Paolo Gabriele, persona fortemente suggestionabile come emerso dalle perizie di entrambe le parti, seppur con sostanziali differenze, avrebbe agito per amore della Chiesa e per tutelare il papa. Una motivazione che ha ripetuto anche al termine dell’ultima udienza, prima che i giudici si riunissero in camera di consiglio.
"La cosa che sento fortemente dentro di me – ha ripetuto Gabriele cui spettava l’ultima parola – è la convinzione di aver agito per esclusivo, direi viscerale, amore per la Chiesa di Cristo e per il suo capo visibile. È questo che io sento. E, se lo devo ripetere, non mi sento un ladro".
Proprio questa sua convinzione – sincera o dettata da strategie processuali – gli ha consentito di usufruire delle attenuanti della pena, concesse "considerato l’assenza di precedenti penali, le risultanze dello stato di servizio in epoca antecedente ai fatti contestati, il convincimento soggettivo – sia pure erroneo – indicato dall’imputato quale movente della sua condotta, nonché la dichiarazione circa la sopravvenuta consapevolezza di aver tradito la fiducia del Santo Padre".
Chiusa la posizione di Gabriele, sulla quale erano puntate le attenzioni dei media di tutto il mondo, la vicenda processuale è ancora aperta relativamente al tecnico informatico Claudio Sciarpelletti accusato di favoreggiamento ma la cui posizione, stralciata da quella dell’ex maggiordomo, appare molto leggera.
Una chiarezza per ora parziale in quanto rimangono ancora in sospeso altri interrogativi sulla vicenda: Gabriele ha agito materialmente da solo? Perché lo ha fatto e come pensava, seppur da "infiltrato dello Spirito Santo", di poter essere di aiuto attraverso una vicenda che ha provocato a papa Benedetto solo amarezza e danni all’immagine della Chiesa? Perché ha tirato in ballo, nella penultima udienza, persone che lo avrebbero suggestionato? Dietro a questa vicenda c’è effettivamente lo scontro tra opposte correnti? E con quale posta in gioco?
Interrogativi che non si chiudono certo con la condanna di Paolo Gabriele che, durante il breve iter processuale, è stato sostenuto persino dai tweet di incoraggiamento di Gianluigi Nuzzi, il giornalista cui l’ex maggiordomo ha consegnato i documenti rubati dalle stanze vaticane. Il giornalista che ne ha fatto un libro. Il giornalista sulla cui correttezza di condotta sarebbe opportuno venisse fatta chiarezza, non solo da parte della giustizia per l’eventuale reato di ricettazione (e in questo caso niente può senza rogatoria quella vaticana) ma anche gli organismi della professione. Qualcuno dovrebbe spiegare, una volta per tutte, se la pubblicazione di materiale rubato, e della cui provenienza si è pienamente a conoscenza, costituisca o meno reato.
Vaticano: la sentenza del processo Gabriele
"In nome di Sua Santità Benedetto XVI gloriosamente regnante, il Tribunale, invocata la Santissima Trinità, ha pronunciato la seguente sentenza". Con questa formula il presidente del Tribunale del Vaticano, Giuseppe Dalla Torre, ha iniziato sabato la lettura della sentenza che ha condannato a 18 mesi di reclusione Paolo Gabriele, l’ex assistente di camera del pontefice, colpevole di furto di documenti di proprietà del papa.
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