dell’intuizione che fu alla base della Comunità europea del carbone e dell’acciaio [CECA, 1951, ndr] e ispirò la proposta di una Comunità europea di difesa [peraltro fallita: CED, 1951-1954, ndr], una politica ed una cultura che – guardando con realismo oltre lo Stato nazione – immaginarono ed edificarono tra l’altro le fondamenta di quella che oggi è l’Unione europea [CEE, Trattato di Roma, 25 marzo 1957, ndr] e che nacque come alternativa alla stagione segnata dalle pretese delle istituzioni politiche ottocentesche, che tanta responsabilità avevano avuto nei drammi della prima metà del Novecento». È questo uno dei passaggi chiave del documento preparatorio della quarantaseiesima Settimana Sociale dei cattolici italiani che si terrà a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010. A tal proposito, intendo proporre una breve riflessione sul senso di tale richiamo istituzionale, alla luce di alcune illuminanti affermazioni presenti nel discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al convegno promosso dalla Fondazione Centesimus Annus che si è svolto a Roma lo scorso 22 maggio 2010.
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Ad un anno dalla promulgazione della Caritas in veritate, Benedetto XVI ribadisce che "Il bene comune è la finalità che dà senso al progresso e allo sviluppo". In definitiva, il Papa individua nel "bene comune" una cifra che possa qualificare una tipologia di sviluppo che non si limiti ad accrescere la produzione di beni materiali, ma che tenga conto anche di fattori intangibili, considerati indispensabili, in quanto prerequisito, anche alla produzione di ricchezza materiale. Il fattore intangibile per eccellenza è la promozione della dignità umana, una dignità che si esplica nella possibilità di esprimere nella libertà e nella responsabilità la propria vocazione a partecipare alle innumerevoli forme di vita sociale; dalla partecipazione politica a quella economica, senza escludere quella culturale. È a questo punto del discorso che Benedetto XVI introduce un tema ben presente in Caritas in veritate e che forse avrebbe meritato di essere maggiormente approfondito da parte dei tanti commentatori. Mi riferisco al tema della cosiddetta "via istituzionale" ovvero "politica" della carità (CV, 7). Il Papa lo spiega nel discorso del 22 maggio, affermando che "La politica deve avere il primato sulla finanza e l’etica deve orientare ogni attività". Si badi bene che il Santo Padre distingue il “primato” delle istituzioni politiche dal ruolo di “orientamento” dell’etica, non confondendo i piani. Dunque, alla politica – con le sue istituzioni – non si chiede l’orientamento delle attività economiche, ma di assicurare con metodo democratico (“cooperativo”) il funzionamento delle istituzioni che tutelino e promuovano le condizioni in forza delle quali gli operatori potranno assumere liberalmente quelle decisioni che migliorano le loro esistenze – se ad esempio ammettiamo che in economica di mercato la concorrenza contribuisce ad elevare il rapporto qualità-prezzo dei beni e dei servizi disponibili, allora, compito della politica sarà di stabilire le regole (possibilmente di rango costituzionale per sottrarle alla discrezionalità delle mutevoli maggioranze parlamentari) affinché tale principio sia tutelato e promosso contro i tentativi di limitarlo e di piegarlo agli inevitabili interessi particolari, pubblici o privati che siano. Allora, il primato della politica si traduce nella capacità di dar vita ad istituzioni che sappiano rispondere ai problemi dell’umana contingenza, offrendo gli strumenti che consentano di giungere lì dove i singoli direttamente non riescono ad arrivare, nel rispetto dei principi di poliarchia e di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Per questa ragione, ci ricorda Benedetto XVI sempre nel paragrafo sette della Caritas in veritate, la "via istituzionale della carità" non è "meno qualificata ed incisiva" della via diretta. Il compito della politica, dunque, è definito primario da benedetto XVI in quanto comporta «il prendersi cura e l’avvalersi di un complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale mondiale, in modo tale che prenda forma di pólis, di città dell’uomo».
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Oltretutto, Benedetto XVI sembrerebbe invitarci a non indulgere in una tanto retorica quanto enfatica, inutile e, alla fine, dannosa, declamazione del concetto di “bene comune” e precisa innanzitutto che tale concetto è in sé necessariamente plurale, declinando il “bene comune” in “beni”, di conseguenza, anche le istituzioni preposte al suo ottenimento è opportuno che rispondano al principio poliarchico e che siano articolate secondo il principio di sussidiarietà: «È allora decisivo che siano identificati quei beni a cui tutti i popoli debbono accedere in vista del loro compimento umano. E questo non in qualsiasi maniera, ma in una maniera ordinata ed armonica. Infatti, il bene comune è composto da più beni [corsivo aggiunto]: da beni materiali, cognitivi, istituzionali e da beni morali e spirituali, quest’ultimi superiori a cui i primi vanno subordinati».
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A questo punto, analizzando il concetto plurale e, quindi, poliarchico di bene comune, si rende necessaria la distinzione fra il suo oggetto formale ed il suo contenuto materiale. Formalmente il bene comune non muta al variare delle circostanze, mentre il contenuto materiale cambia radicalmente. Oggi, ad esempio, il concetto di bene comune richiama l’attenzione delle istituzioni su aspetti del tutto ignorati nelle precedenti epoche: assistenza medica, autostrade, controllo dei tassi d’inflazione, istruzione pubblica, diritto al lavoro, bilancio dello stato in pareggio e la lista potrebbe andare ancora avanti, a seconda delle decisioni che, con metodo democratico (cooperativo ossia partecipativo: le teste si contano e non si tagliano), coloro che condividono le comuni sorti della società civile vorranno prendere per se stessi e per i propri “prossimi” (presenti e futuri). Ebbene, riflettendo sul contenuto materiale del bene comune – avendo come orizzonte di riferimento l’oggetto stesso della Dottrina sociale della Chiesa –, secondo le indicazioni di Giovanni Paolo II in Centesimus annus, n. 42, in un’economia sociale di mercato, la quale può essere definita come «un’idea di politica dell’ordine il cui scopo è di legare, sulla base dell’economia della concorrenza, la libera iniziativa con un progresso sociale assicurato proprio con le prestazioni dell’economia di mercato», dunque, un sistema che punti attraverso il mercato (e non contro o a prescindere da esso) ad una crescita prolungata e stabile, tra le altre istituzioni, si rende indispensabile una costituzione fiscale che contemperi ragioni di equità e di sviluppo.
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Se alla politica spetta il primato sulla finanza e sull’economia, all’etica spetta il compito di orientare le scelte degli attori sociali. Alla “via istituzionale della carità” (la politica), dunque, compete la declinazione plurale del contenuto materiale del bene comune, conforme al suo immutabile oggetto formale, non in forza del potere coercitivo dello "Stato", bensì in virtù della prospettiva antropologica che innerva e qualifica eticamente le scelte di coloro che operano nelle istituzioni. In pratica, si assumono le categorie classiche del "liberalismo delle regole", si pensi alla tradizione ordoliberale tedesca, all’umanesimo liberale di un Wilhelm Röpke, di un Luigi Einaudi o di un Luigi Sturzo. È presente la consapevolezza che le virtù non si impongono per decreto, che un sistema che "renda impossibile il male" (CA, 25) rappresenta la sempiterna tentazione del “serpente” già stigmatizzata da Giovanni Paolo II; una sorta di fatale scorciatoia che ci protegga dai fastidi dell’umana contingenza.
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È qui che entra in gioco un ulteriore argomento: le ragioni della democrazia. Esse, tanto per Giovanni Paolo II quanto per Benedetto XVI, sono di carattere etico: “il postulato della democrazia”, scrive papa Wojtyla, è “quello di formare società di cittadini liberi che insieme perseguono il bene comune”. Il bene comune più immediato è il riconoscimento reciproco delle regole del gioco democratico. Opportunamente Wojtyla ha fatto notare come alla base dell’organizzazione sociale israelita non ci sia Abramo, bensì Mosè, in quanto artefice di una particolare forma di stato di diritto in senso biblico, fondato sul decalogo dato da Dio al popolo di Israele. Il rispetto di quelle dieci regole fondamentali delineano un’idea di democrazia al centro della quale troviamo un limite invalicabile posto al Legislatore. Questi sarà soggetto alla legge e dovrà attenersi a regole che esprimono – per dirla con le parole della Dichiarazione d’Indipendenza (1776) delle tredici colonie americane – “verità di per se stesse evidenti, quali il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”. In occasione del pellegrinaggio a Piekary Slaskie il 29 maggio del 1977, parlando della dimensione propria dell’uomo, il cardinale Wojtyla ebbe a dire: «La Chiesa dei nostri tempi, per bocca dei suoi papi, ricorda questi diritti. Il servo di Dio Giovanni XXIII, nella fondamentale prima parte della sua famosa enciclica Pacem in terris, afferma che condizione di ogni pace è il rispetto dei diritti dell’uomo: dell’uomo! Dell’uomo, non del gruppo, non della classe, non del partito: dell’uomo! Sono i diritti alla verità, alla libertà, alla giustizia, all’amore. E proprio essi costituiscono il test di verifica dell’azione di tutti i gruppi e di tutte le classi, di tutti i partiti e di tutti i sistemi politici! Questa è la verità sull’uomo nel mondo contemporaneo!». Le terribili esperienze della storia hanno istruito l’uomo sul fatto che egli è il fine di tutti i sistemi politici ed economici e che le organizzazioni, lo stato e i partiti hanno un senso solo se servono ad accrescere la dignità dell’uomo.
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Nella prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa, allora, dire che la democrazia è il governo del popolo risulta del tutto insoddisfacente, così come appare inadeguato affermare che la democrazia si caratterizza e si differenzia da altre forme di governo per il rispetto della regola della maggioranza: non fu forse un parlamento regolarmente eletto a consentire la salita al potere di Hitler? Allora, chi sostiene la democrazia e “la via istituzionale della carità” – anche cristianamente intese e comunque mai canonizzate – non può non sottolineare l’importanza delle regole del gioco, che per alcuni sono norme dedotte dal diritto naturale, mentre per altri sono regole sedimentate nella storia e confermate dall’esperienza; regole e procedure che diventano istituzioni e consentono il doveroso consenso sul legittimo dissenso, l’unica possibile definizione di democrazia che ci metta al riparo dalla tentazione del serpente di voler prendere il posto di Dio.