"Veramente, avevo sperato di trovare pace e tranquillità. Il fatto di trovarmi all’improvviso di fronte a questo compito immenso è stato per me, come tutti sanno, un vero shock. La responsabilità, infatti, è enorme". Quel 19 aprile del 2005 il cardinale Joseph Ratzinger, nella suggestiva cornice della Cappella Sistina, si sentì rivolgere la fatidica domanda se avrebbe accettato l’elezione canonica a sommo pontefice. Sotto gli affreschi di Michelangelo cominciava il percorso del 265° pontefice della Chiesa cattolica.

Proprio nel momento in cui stava maturando l’idea di tornare nella sua Germania, di dedicare la sua vecchiaia allo studio, alla passione per il pianoforte, a una vita normale. Da qui quello "shock" di cui parla a cuore aperto nel libro "Luce del mondo", nato dalla conversazione con il giornalista Peter Seewald.
Da sette anni papa Benedetto XVI guida la Chiesa tra le tante tempeste che stanno rendendo sempre più difficile la sua navigazione e lo fa con grande energia (a dispetto degli 85 anni compiuti lo scorso 16 aprile), con coraggio e con la giusta dose di umiltà.
Eppure non è stato facile per l’apprezzato teologo sedere sulla cattedra di Pietro, non solo perché si trattava di un repentino cambiamento nei suoi progetti di vita ma soprattutto perché si trovava a raccogliere la difficile eredità di Giovanni Paolo II.
Con il papa polacco la sintonia era sempre stata ottima, Karol Wojtyla nutriva grande stima per questo professore-cardinale che contribuiva con competenza e saggezza alla causa del cattolicesimo.
Il problema era un altro o meglio altri: innanzitutto combattere le "piaghe" rimaste aperte nel tessuto della Chiesa (pedofilia in primis), far fronte ai repentini cambiamenti della società complici di un progressivo allontanamento da Cristo e lavorare con uno stile che non poteva e non doveva essere quello del predecessore.
A spezzare la continuità tra i due pontificati era soprattutto un’evidente dissomiglianza a livello mediatico: l’immagine che aveva accompagnato Giovanni Paolo II per oltre venticinque anni di pontificato aveva in un certo senso dettato il profilo dei pontefici. La grande esuberanza del papa polacco, il suo dinamismo, la marcata gestualità, i fuori programma non si rispecchiavano più nel nuovo pontificato.
Non solo perché papa Ratzinger al momento dell’elezione aveva compiuto 78 anni – venti in più del predecessore – ma semplicemente perché il pontefice tedesco ha un altro temperamento, una maggiore riservatezza e timidezza.
La principale trappola in cui sono caduti tanti osservatori, in primis molti fedeli e troppi giornalisti, è stata proprio questa: ricercare nel nuovo papa i tratti distintivi del predecessore, facendo di quelle caratteristiche un metro di misura e di paragone sulle capacità del nuovo successore di Pietro. Le differenze sul piano caratteriale e comunicativo erano abissali, tanto da far avvertire una diffusa e frettolosa antipatia per questo papa definito subito glaciale, conservatore, intransigente, sino a termini che hanno avuto un evidente accento dispregiativo come "Rottweiler di Dio" e "cardinal panzer", con riferimento ai carri armati tedeschi. Il suo stile riservato e la sua timidezza erano spacciati per debolezza e inadeguatezza dinanzi alle sfide della modernità.
Rileggendo il pontificato a sette anni di distanza dobbiamo riconoscere a papa Ratzinger la grande capacità di aver sempre saputo guardare oltre queste disaffezioni, puntando dritto a quella che era ed è la sua missione: accompagnare il popolo verso la conoscenza e "frequentazione" di Dio, mettendo a disposizione di credenti e non la sua testimonianza di fede.
Joseph Ratzinger non è il papa delle ambizioni, anzi ha raccontato con una invidiabile umiltà di aver capito che "accanto ai grandi papi devono esserci anche pontefici piccoli che danno il proprio contributo". Una dimostrazione incontrovertibile di grandezza che, assieme alla sua mitezza e timidezza, hanno pian piano permesso alla gente di scoprire il vero volto del papa tedesco.
Le prese di posizione sul terrificante dramma della pedofilia nella Chiesa, sul complicato caso dei lefevbriani, sulle disubbidienze in terra cinese e sul tema del sacerdozio femminile sono state il terreno sul quale abbiamo capito a fondo l’approccio e la tempra ratzingeriane.
Che poi ci siano i suoi detrattori che puntano dritto al discredito questa è un’altra questione, tanto che ogni incidente di percorso è stato spesso strumentalmente enfatizzato. Così le dichiarazioni portate all’esasperazione sull’uso del profilattico, la lectio all’Università di Ratisbona che per molti avrebbe aperto una irreversibile spaccatura con il mondo islamico, il caso del vescovo negazionista Williamson da cui sarebbe derivata la fine dei rapporti con l’ebraismo. Niente di tutto ciò anche se in effetti qualche ingenuità c’è stata e sicuramente una maggiore accortezza da parte dei suoi collaboratori l’avrebbe scongiurata.
Per non parlare poi delle questioni interne o meglio delle battaglie intestine, sfociate nel recente Vatileaks la fuga di documenti riservati, che non hanno certo giovato all’immagine del pontificato.
Nonostante tutto il papa più anziano degli ultimi cento anni procede con passo misurato ma deciso verso il futuro, sorretto da quella fede e da quell’audace determinazione che lo porteranno incontro a tanti altri impegni tra cui il viaggio a settembre in Libano e nell’estate del 2013 in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù. Tanti progetti che hanno spazzato via le recenti voci su possibili dimissioni sollevate da chi continua a non comprendere la sua intrepida costanza.
C’è chi ha detto che Giovanni Paolo II arrivava prima al cuore e poi alla mente mentre con Benedetto XVI accade il contrario, toccando prima la mente e poi il cuore. Può sembrare un banale chiasmo ma se ci pensiamo è una rappresentazione che si avvicina alla realtà.
Questi sette anni hanno dimostrato uno stile che privilegia la parola: Benedetto XVI va ascoltato, è questa la strada per entrare in perfetta sintonia con il suo pensiero e per conoscerlo veramente a fondo.
Si tratta evidentemente di una strada che va in controtendenza rispetto allo stile gridato della comunicazione che connota la nostra società e i rapporti interpersonali.
È auspicabile che sia anche il modo per tornare, o imparare, ad ascoltare di nuovo gli altri, se stessi e Dio.

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