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Il richiamo di Papa Benedetto XVI ai rappresentanti politici, «specie se animati dalla fede», a tutelare e promuovere la famiglia fondata sul matrimonio e la vita «in tutte le sue fasi, dal concepimento al suo esito naturale», pare stridere con quanto esprimono taluni programmi e dichiarazioni pre-elettorali di candidati che si propongono di ‘salvare l’Italia’ e che magari non fanno mistero di una certa ispirazione cristiana del loro impegno politico. Si rende davvero un servizio ai «diritti all’altezza dei tempi», per usare l’espressione che Matteo Renzi utilizza nel suo programma, nel parificare diritti e doveri del matrimonio a quelli di un «progetto di vita delle coppie dello stesso sesso»?

Oppure nel prevedere la possibilità di accedere alle agevolazioni proprie delle successioni familiari anche per persone unite da ‘contratti di convivenza’ (disegno di legge di Carlo Giovanardi)? O, ancora, nell’immaginare di consentire le adozioni anche ai single e alle coppie omosessuali (ipotesi avanzata da Francesco Rutelli)? E per gran parte la giustificazione di tali scelte sarebbe originata dalla necessità di adeguare la nostra legislazione alle linee evolutive provenienti dall’Europa e dalla Comunità internazionale. Il Papa chiede, invece, saggia coerenza di visione. E lo chiede con afflato e determinazione: è impegno che «non deve conoscere flessioni o ripiegamenti, ma al contrario va profuso con rinnovata vitalità». Il compito di tanti credenti impegnati in politica è, senza dubbio, quello di individuare, con una buona dose di creatività, realistici punti di mediazione, anche con il rischio di norme non totalmente accettabili sul piano morale ma comunque attente nel dare rilevanza agli interessi silenziosi, come quello alla vita dell’embrione, alla bigenitorialità del minore, all’integrità fisica del malato. Ma il dato preoccupante che ora emerge sta nella debolezza dei fondamenti antropologici su cui si basano scelte concrete e ipotesi di lavoro che toccano gli interessi più vitali e delicati delle persone, con risposte che finiscono per suonare – come ammonisce Papa Benedetto – «rumorose», «sbrigative», «superficiali», «di breve respiro». Così, sotto l’arcata di non meglio identificati «princìpi» della giurisprudenza europea, anche la classe dirigente italiana, pur cristianamente ispirata, dinanzi al richiamo a categorie create dall’artifizio dell’interprete culturalmente orientato (ad esempio, taluni giudici di Strasburgo, portatori dell’ethos e dell’opzione ideologica di consessi talvolta elitari e ristretti) finisce con l’abbracciare sfere di libertà che solo eccezionalmente ricevevano il rango di diritti positivi, assumendo come archetipo la nuova categoria dell’autodeterminazione assoluta.

Occorre allora ricordare che alle tesi che vedrebbero nell’ampliamento di alcuni cosiddetti ‘diritti civili’ un automatico strumento di garanzia degli spazi di libertà si contrappone il problema cruciale dell’effettiva tutela dei soggetti deboli, privi di autonomia e, dunque, di libertà.

Benedetto XVI ce lo ricorda con efficacia: la tendenza è quella di isolare l’individuo; isolamento che diventa inesorabilmente «fonte di sofferenza e di inaridimento sia per il singolo sia per la stessa comunità».

Si tratta, dunque, di uscire dalle dinamiche strette dei cosiddetti ‘diritti civili’ (e della loro caricatura, all’insegna del capriccio e
di qualunque interesse) e segnalare con coraggio ciò che è percepito come giusto, per distinguerlo da ciò che si ritiene ingiusto, non già a livello individuale ma quale comunità attenta alle sue componenti più fragili. L’adesione richiesta al politico credente nei confronti del dato sociale in continua evoluzione è pur sempre – per dirla con un’efficace e fortunata espressione di Philipp Heck – un’adesione non cieca ma «pensosa», «riflessiva», e cioè costantemente attenta a cogliere le opzioni di ordine valutativo e tenerne adeguatamente conto anche nella soluzione dei casi non espressamente regolati. L’idea che va però respinta è quella secondo cui la complessità sociale e il ‘pluralismo dei valori’ abbiano messo ormai definitivamente in crisi qualsiasi aspirazione della politica a cercare il senso del giusto.
Perché proprio qui – e forse solo qui – si misura il contributo del laico credente impegnato nella costruzione di un ‘bene’ che da personale si fa comune.

* (editoriale su Avvenire del 23 settembre 2012)

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