A tal proposito, intendo proporre una breve riflessione sul senso di tale richiamo istituzionale, alla luce di alcune interessanti affermazioni presenti nel discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al convegno promosso dalla Fondazione Centesimus Annus che si è svolto a Roma lo scorso 20 maggio.
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A quasi un anno dalla promulgazione della “Caritas in veritate”, Benedetto XVI ribadisce che “Il bene comune è la finalità che dà senso al progresso e allo sviluppo”. In definitiva, il Papa individua nel “bene comune” una cifra che possa qualificare una tipologia di sviluppo che non si limiti ad accrescere le produzione di beni materiali, ma che tenga conto anche di fattori intangibili, considerati indispensabili, in quanto prerequisito, anche alla produzione di ricchezza materiale. Il fattore intangibile per eccellenza è la promozione della dignità umana, una dignità che si esplica nella possibilità di esprimere nella libertà e nella responsabilità la propria vocazione a partecipare alle innumerevoli forme di vita sociale; dalla partecipazione politica a quella economica, senza escludere quella culturale. È a questo punto del discorso che Benedetto XVI introduce un tema ben presente in “Caritas in veritate” e che forse avrebbe meritato di essere maggiormente approfondito da parte dei tanti commentatori. Mi riferisco al tema della cosiddetta “via istituzionale” ovvero “politica” della carità (CV, 7). Il Papa lo spiega affermando che “La politica deve avere il primato sulla finanza e l’etica deve orientare ogni attività”. Il primato della politica si traduce nella capacità di dar vita ad istituzioni che sappiano rispondere ai problemi dell’umana contingenza, offrendo gli strumenti che consentano di giungere lì dove i singoli direttamente non riescono ad arrivare, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Per questa ragione, la “via istituzionale della carità” non è “meno qualificata ed incisiva” della via diretta. Il compito della politica, dunque, è definito primario in quanto comporta “il prendersi cura e l’avvalersi di un complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale mondiale, in modo tale che prenda forma di pólis, di città dell’uomo”.
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Se alla politica spetta il primato sulla finanza e sull’economia, all’etica spetterebbe il compito di orientare le scelte degli attori sociali. La via istituzionale della carità, dunque, è orientata al bene comune non in forza del potere coercitivo dello “Stato”, bensì in virtù della prospettiva antropologica che innerva e qualifica eticamente le scelte di coloro che operano nelle istituzioni. In pratica, si assumono le categorie classiche del “liberalismo delle regole”, si pensi alla tradizione ordoliberale tedesca, all’umanesimo liberale di un Röpke, di un Einaudi o di uno Sturzo. È presente la consapevolezza che le virtù non si impongono per decreto, che un sistema che “renda impossibile il male” (CA, 25) rappresenta la sempiterna tentazione del serpente già stigmatizzata da Giovanni Paolo II; una sorta di fatale scorciatoia che ci protegga dai fastidi dell’umana contingenza.
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È qui che entra in gioco un ultimo argomento: le ragioni della democrazia. Esse, per Benedetto XVI, sono di carattere etico: il perseguimento del bene comune. Il bene comune più immediato è il riconoscimento reciproco delle regole del gioco. Nella prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa, dire che la democrazia è il governo del popolo risulta del tutto insoddisfacente, così come appare inadeguato affermare che la democrazia si caratterizza e si differenzia da altre forme di governo per il rispetto della regola della maggioranza: non fu forse un parlamento regolarmente eletto a consentire la salita al potere di Hitler? Allora, chi sostiene la democrazia e la via istituzionale della carità sottolinea l’importanza delle regole del gioco; regole e procedure che diventano istituzioni e consentono il doveroso consenso sul legittimo dissenso, l’unica possibile definizione di democrazia che ci metta al riparo dalla tentazione del serpente di voler prendere il posto di Dio.
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