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Il discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al Congresso che ha celebrato il decimo anniversario della Fides et ratio è stato accolto dalle ormai consuete polemiche. Non è vero che questo Papa è un “nemico” della scienza. Incomprensioni e diffidenze hanno un’altra radice.

La Fides et ratio è senza dubbio uno dei documenti più importanti per comprendere lo stile, i presupposti culturali e gli obiettivi di questo pontificato. Il programma proposto dall’enciclica a tutti coloro che sono disposti a «guardare in profondità all’uomo» era chiaro: recuperare la portata autenticamente metafisica del pensiero, la sua capacità «di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante». Anche quando a tema ci sono «i giudizi della coscienza morale» (107 e 82-83). Per Benedetto XVI non ci sono alternative per evitare la deriva del relativismo, che nascerebbe proprio dalla divaricazione di principio fra la ricerca della «verità ultima delle cose» e la scoperta delle «leggi della natura». Per queste ultime (e fino a un certo punto) siamo disposti a parlare di universalità e immutabilità, mentre le domande che riguardano il bene e il senso della vita appaiono sottratte al dominio della ragione e infine abbandonate al capriccio dell’arbitrio. Questa curvatura del pluralismo sarebbe inevitabile una volta smarrito «l’antico concetto di ratio», di un’intelligibilità che – prosegue il Papa nel suo discorso del 16 ottobre – non si ripiega nella presunzione in ultima analisi impotente della soggettività e dell’autoriflessione perché si apre ad un «dato che viene offerto e che può essere riconosciuto», ad una verità che l’uomo riceve «come dono gratuito».
Non c’è nulla di nuovo in questo intervento. È ingeneroso contrapporre alla denuncia della tentazione del «facile guadagno» le condizioni nelle quali sono costretti a lavorare tanti scienziati, soprattutto in Italia. Benedetto XVI parla qui delle possibili conseguenze della tenaglia di sapere e potere, tanto più pericolose quanto più l’universale della scienza si salda alla forza egemone e fino a qualche settimana fa trionfante della globalizzazione, che è precisamente quella del mercato. Quanti hanno a cuore la libertà della ricerca dovrebbero sottoscrivere senza esitazioni queste parole. Che la scienza non sia in grado «di elaborare principi etici», che cioè non si possa derivare dalla conoscenza di quel che è il principio di quel che deve essere, è l’affermazione sulla quale si regge gran parte della filosofia morale a partire da Hume. Gli scienziati che sono abituati a confrontare le loro diverse visioni del bene all’interno degli stessi laboratori e condividendo le stesse conoscenze sanno che in questa tesi non c’è ostilità alcuna per il loro lavoro. Il problema è quello della logica dell’universale quando, per dirla con Tommaso, si passa dalla ragione speculativa che tratta delle cose che non possono essere altrimenti alla ragione pratica, che trattando di quelle «cose contingenti» che sono le azioni umane è perlomeno costretta ad abdicare alla pretesa di dedurre «sempre nelle sue conclusioni particolari la verità, senza nessuna eccezione».
Di fronte ai conflitti che a questo livello inevitabilmente si creano la scelta fondamentale resta fra due opzioni. Ed è qui che la comunicazione diventa difficile. La prima coincide con il riconoscimento che qualcuno esercita per conto di tutti un «servizio disinteressato alla verità», come si esprimeva nel 2002 la Congregazione per la dottrina della fede. Il rischio è evidentemente che l’affermazione della Lettera a Diogneto citata dal Papa – «non l’albero della scienza uccide, ma la disobbedienza» – venga interpretata come una semplice ricaduta nel principio di autorità: la fede e la sua Verità come giudice della scienza, oltre che della politica. La seconda opzione è sulla linea della «attenzione del cuore» indicata dallo stesso Pontefice nella Deus caritas est e qui richiamata da un prezioso riferimento ad Agostino: «Nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente». È per rispettare la peculiarità di questa perfezione che, forse, l’appello al logos dovrebbe ampliare i suoi confini con un vocabolario diverso da quello delle essenze, del fondamento, di quel che è assolutamente vero e per questo non negoziabile. Si eviterebbe così di alimentare il sospetto che chi pensa diversamente è, alla resa dei conti, qualcuno che pensa male. Un sospetto, peraltro, che non aiuta a convincerlo.
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