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«…Benedetto XVI, con la recente enciclica Spe salvi, richiama la nostra attenzione su una dinamica antropologica fondamentale: se l’uomo è capace di distendere il proprio desiderio nel tempo, se l’uomo è capace cioè di progettare, allora è vero che ciò che ci attendiamo dal futuro può incidere realmente sul presente…»

«La prima tra le cause è la causa finale. […] Colui che agisce non si muove se non avendo individuato uno scopo. Se infatti colui che agisce non avesse intenzione di conseguire un certo risultato, non farebbe questo piuttosto che quello: perché si produca un certo risultato è necessario che si sia orientati a qualcosa di certo, che costituisce lo scopo. […] È tipico della natura razionale il fatto di tendere ad un fine quasi conducendo se stessi al fine»[1].
Le annotazioni che ci vengono dai «classici» ci possono aiutare a scorgere aspetti preziosi e talvolta inavvertiti dell’esperienza quotidiana; cosa c’è di più ovvio dell’affermazione che «colui che agisce non si muove se non avendo individuato uno scopo»? Ogni azione umana risponde comprensibilmente a questa dinamica: è sapendo dove vogliamo arrivare che decidiamo quale sarà il nostro percorso e quali saranno le cose da fare, le strade da imboccare e quelle da evitare. Se intendo laurearmi in ingegneria, quantomeno dovrò iscrivermi, pagare le tasse, frequentare i corsi, sostenere gli esami… La cosa si fa meno scontata se iniziamo a considerarla in questo modo: in effetti possiamo dire che quell’obiettivo che riguarda il mio domani – il diploma che festeggerò tra cinque, sei, o più anni – incide realmente sul mio oggi; in questo senso ciò che mi attendo dal domani è «causa», è un «principio» che genera conseguenze, un evento da cui dipendono altre cose, altri eventi, altre scelte. Un principio tutto particolare, perché pur appartenendo al futuro – e rimanendo quindi qualcosa di possibile, di incerto (chi lo sa se poi ce la farò a concludere gli studi?) – genera conseguenze sicure e misurabili sul presente (le tasse universitarie le pago oggi).
Benedetto XVI, con la recente enciclica Spe salvi, richiama la nostra attenzione proprio su questa dinamica antropologica fondamentale: se l’uomo è capace di distendere il proprio desiderio nel tempo, se l’uomo è capace cioè di progettare, allora è vero che ciò che ci attendiamo dal futuro può incidere realmente sul presente. È importante cogliere le implicazioni di questa «causalità» che si direbbe trasgredire l’ordine meccanico tra passato, presente e futuro a cui spontaneamente facciamo riferimento: «Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (Spe salvi, § 7:). Detto altrimenti: le nostre speranze sul domani possono incidere realmente sulla vita di oggi.
L’enciclica consente di esplorare – da questa angolatura – una questione ulteriore ma cruciale: diremo che tutte le attese che riguardano il futuro incidono sul presente? È evidente che non è così. Posso «sperare» di vincere la lotteria di Capodanno, ma si tratta di una speranza di bassa lega e questo per chiari motivi: il futuro che sto prefigurando è poco affidabile, improbabile, soprattutto poco legato alla mia iniziativa ed alle relazioni che qualificano e sostengono la mia vita quotidiana. Ed infatti non dilapido tutti i miei averi facendo conto che, tanto, vincerò il primo premio. Un semplice «desiderio» relativo al futuro, una cosa che «ci piacerebbe» non è per questo una «speranza», non è automaticamente una «causa» capace di generare conseguenze e di orientare in modo chiaro l’azione di oggi. Ma come distinguere un semplice «desiderio» da una «speranza»?
Gli antichi suggerivano che la vera speranza ha un sapore caratteristico, dovuto ad alcuni ingredienti irrinunciabili: «Circa l’oggetto della speranza occorre vi siano quattro condizioni. Primo, che ci sia un bene: propriamente non esiste speranza se non del bene. E per questo la speranza differisce dal timore, che è timore del male. Secondo, che riguardi il futuro: non c’è speranza delle cose presenti già raggiunte. Terzo: è richiesto che sia qualcosa di arduo, raggiungibile con difficoltà: non si dice infatti di sperare cose da poco, che subito possono essere ottenute. Quarto, che quelle cose ardue siano tuttavia raggiungibili: infatti nessuno spera ciò che in ogni caso non potrà raggiungere. E per questi motivi la speranza differisce dalla disperazione»[2].
Ce lo ricorda anche Benedetto XVI: la sola che può avere conseguenze reali e significative è una attesa efficace, «in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso (un percorso arduo), può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta (un bene) e se di questa meta noi possiamo essere sicuri (sia qualcosa di raggiungibile), se questa meta è così grande (non si dice di sperare cose da poco) da giustificare la fatica del cammino». (Spe salvi, § 31).
Il vigore della speranza, il suo diverso «rango» rispetto al desiderio, si misura sulla capacità di mobilitare, di accendere un credito con il futuro, di orientare l’oggi confidando in un domani impegnativo, difficile, ma in ogni caso per nulla assurdo, anzi, ragionevole; un domanila cui ragionevolezza dipende soprattutto dal coinvolgimento personale e dalla rete di relazioni che ispessisce l’esistenza: di qui la bella espressione dell’enciclica, «speranza affidabile».
La virtù della speranza, la forza che la qualifica come «causa», risiede proprio nell’affidabilità dell’orizzonte che ci si prefigura, un orizzonte oggetto di una adesione consapevole, interiorizzata, appunto perché messa alla prova della riflessione, dell’esperienza e delle relazioni. Incontriamo qui indubbiamente un altro dei temi cari a Benedetto XVI: la ragionevolezza della fede; e non è un caso che la Spe salvi richiami l’intima tessitura tra fede e speranza: la relazione personale con Cristo risorto, l’aver colto la custodia della Provvidenza negli snodi cruciali della vita propria e altrui è ciò che rende ragionevole la speranza della risurrezione. Ed il cenno aiuterà forse a capire che l’affidabilità di una speranza non è certo funzione del calcolo di probabilità ma piuttosto la risultante di una lettura attenta del proprio percorso esistenziale e – non secondariamente – della tradizione di vita in cui si è inseriti.
Se ci poniamo a margine delle intenzioni dell’enciclica, facendo però tesoro di questi richiami antropologici, potremo osservare che il motivo della speranza investe con potenza la questione del bene comune: quali sono le «speranze» che operano nell’oggi della vita civile? Quali sono i grandi progetti che guidano ed orientano le politiche più immediate? Da quali grandi visioni traggono alimento questi progetti? Quali sono i fondamenti di ragionevolezza di queste speranze? Perché è vero, richiamando quanto ci ricorda Benedetto XVI, che «noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino», pur senza dimenticare che «senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano» (Spe salvi, § 31).
Confrontarsi laicamente sulle «grandi speranze» che circolano nella cultura e nella società, sulla loro affidabilità, sulla loro ragionevolezza, può essere un modo per capire dove stiamo andando, se c’è una direzione di marcia e qual è. Occorrerebbe forse essere più insistenti nel chiedere, a coloro che si candidano a reggere la barra del timone, di palesare le «grandi speranze» che ispirano l’azione, le «ardue fatiche» che intravedono ed a cui invitano, ed i motivi per cui certi traguardi risultano in ogni caso effettivamente «raggiungibili». E viceversa sarà bene diffidare di coloro che non si impegnano nell’esprimere una visione d’insieme ma, in compenso, promettono di soddisfare i desideri dei singoli e dei gruppi senza costi e senza fatiche per alcuno.

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[1] Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 1, a. 2.

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[2] Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, p. I-II, q. XL, a. 1

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