La nota storia per cui il buffone Gonnella, cacciato dal territorio di Verona sotto pena di morte, vi rientra su di un carro cosparso da terra di Ferrara, può essere letta come emblematica della recente vicenda della visita del Papa alla Sapienza, che ha riacceso il dibattito sulla laicità e sulla sua interpretazione.* Bandito, egli ritorna trionfante nella comunità «laica» grazie ad un terreno diverso, quello di un diritto al rispetto e all’ascolto che proviene da un altro luogo.

Tale paragone ci serve da spunto per sostenere una tesi apparentemente paradossale sul rapporto tra religione e laicità: se «laico» può essere definito il gesto eminentemente politico con cui, al fine di garantire universalità di diritti, si delimita un territorio neutro, costitutiva del «religioso» che vuole avere una propria specificità deve essere la costante rivendicazione della «secondarietà» di tale azione istitutrice. Se quindi la laicità si pone come paradigmatica del gesto fondativo, di tipo piuttosto an-archico deve essere il segno caratterizzante principale della religione. Su tali basi il parallelismo tra il papa e il buffone, lungi dall’essere irriverente, evidenzia altresì il ruolo dissacrante giocato sia dall’ironia che dalla religione così compresa.

La necessità di tale ribaltamento di prospettiva è testimoniata già da difficoltà pratiche: la «laicità» è soprattutto invocata a livello di principio astratto, sul riferimento francese, piuttosto che essere ufficialmente riconosciuta nelle legislazioni e dunque concretamente applicata. Numerose sono le divergenze sul suo reale significato, anche senza voler risalire all’equivoco linguistico che l’affetta sin dall’origine, per cui il termine indica ambiguamente una distinzione anzitutto intra-religiosa e specificamente intra-cristiana tra consacrati e non, prima di definire quella tra ciò che ha a che fare con la religione in generale e ciò che ne è esterno. La tesi paradossale qui avanzata ci sembra quindi l’unico modo di distinguere a livello di principio tra religione e laicità. Nella realtà, la storia mostra come profeti, sacerdoti, legislatori, gendarmi e giudici siano rinvenibili tra i paladini di ogni culto, nazione o partito, così che l’ambito politico e quello religioso si sovrappongono sempre inevitabilmente.

Lo spazio pubblico, infatti, non è un luogo immune, ma un «luogo comune», perché frequentato da tutti. Un posto quanti altri mai «equivoco», perché popolato da molte voci, e tutte uguali tra loro. Nella questione della laicità non ne va quindi della difesa di uno spazio neutro e puro precostituito. Ne va piuttosto della purificazione di una realtà sempre già contaminata. Il gesto della laicità consiste nel segnare il confine in cui tutti possono sussistere in base alle leggi comuni, e in questo senso essa è paradigmatica dell’atto politico tout court. Si tratta dell’operazione evidentemente necessaria, ma altrettanto paradossale, con cui, segnando il limite dell’universalità, si lascia immediatamente spazio ad un’esclusione, quale che sia. Il gesto della laicità è quello con cui si traccia il confine tra il «popolo», secondo appunto l’etimologia del termine, e un ordine altro e separato; tra ciò che è normale e ciò che è equivoco; tra ciò che è «dentro» e ciò che è «fuori». Può quindi essere accostato al gesto istitutivo per eccellenza, con cui si ritaglia lo spazio e si sospende il tempo, ponendo il cosmo: il gesto «sacro».

Per converso, nella misura in cui vuole e può avere un senso «altro» rispetto al laico e quindi al politico, la religione deve essere la rivendicazione dell’insufficienza di tale azione istitutrice. La religione non può che rappresentare l’istanza di relativizzazione di ogni ordine finito, temporale, soggettivo. Laicità è separare proprio ed altrui, privato e pubblico, ed è misurare lo spazio ed il tempo – ossia: organizzare il vivere in comune. Religione è riferirsi ad un vincolo altro, e quindi mettere sempre di nuovo in questione la legge: non ovviamente rifiutandola in assoluto – mossa che evidentemente ripete in modo uguale e contrario la parte di violenza inevitabilmente insita nella legge stessa – ma definendo ogni ordinamento come provvisorio. È rivendicare l’umano al di là e prima di ogni istituzione.

D’altronde non si deve leggere in questa rapida proposta l’implicita pretesa della visibilità storica di tale vincolo altro cui il religioso, al contrario del politico, rimanderebbe. Sostenere questa tesi significherebbe negare quanto affermato in precedenza rispetto alla impossibilità di distinguere con certezza, nella storia, sovrani e profeti; sarebbe quindi negare la tesi della contaminazione originaria, e riproporre uno schema lineare di continuità tra religione e laicità. Proprio a tale posizione – e non a quella della religione come istanza «anarchica» – corrisponderebbe l’atteggiamento solo distruttivo che non si pone in grado di accettare le regole diverse rispetto a quelle pretese come pure e giuste: se si sono date prima o si danno altrove, infatti, devono necessariamente ripetersi.

Il legame cui fa riferimento il religioso non ha pretese immediatamente storiche o politiche. Ma proprio per questo il religioso stesso attinge, sempre di nuovo, a terreni storici e politici e ha dunque la grave responsabilità di vagliare tutto per tenere il buono con cui contaminare. Gonnella non rientra a Verona sospeso nel cielo, ma sulla terra – attenzione agli equivoci – di «Ferrara».

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*«Cum esset bannitus per dominum Veronensem in capite si pedem mitteret in territorio suo et ipse fecit se duci super plaustrum explantatum de terra territorii Ferrariensis et comparuit coram domino se offerens non posuisse pedem in suo territorio.»

rn(Angelo degli Ubaldi, In primam Digesti veteris partem commentaria, Torino 1580).

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