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Si è aperto in questi giorni a Roma il Sinodo sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa" e contemporaneamente si è assistito all’ennesimo scossone delle Borse mondiali; le osservazioni di Benedetto XVI, formulate a braccio in occasione della prima Congregazione generale del Sinodo, sono già circolate e sono state già ampiamente commentate: "chi costruisce solo sulle cose visibili, come il successo, la carriera e i soldi rischia poi di perdere tutto".

Sullo sfondo rimane l’immagine evangelica della casa costruita sulla roccia e di quella costruita sulla sabbia, e forse anche quella descrizione della sventura che dà colore al breve racconto: «soffiarono i venti, strariparono i fiumi e si abbatterono su quella casa».
Come regolarsi dinanzi a queste immagini ed agli scenari di crisi dei mercati, a cui Benedetto XVI non poteva non fare riferimento in questo frangente? Se non si fa attenzione al contesto in cui cade il richiamo, si rischierà di rubricare il commento tra le «ovvietà» o magari di scambiare il cristiano per un menagramo, in trepidante attesa di veder realizzate le profezie di sventura per poter dire «l’avevo detto io!». Se così fosse occorrerebbe dare ragione a Nietzsche: chi attende la sventura per dar sfogo al proprio risentimento ed alla propria invidia non merita udienza, perché soffre dello stesso male che a parole denuncia. E dunque non ha nulla di diverso da proporre.
La pensava in questo modo anche Emmanuel Mounier, che negli anni della storica crisi americana del ’29, dalle pagine di Esprit, sosteneva che «borghese» non è soltanto chi ha raggiunto quello status, ma anche chi desidera raggiungerlo, angustiandosi per non esserci ancora riuscito, e rallegrandosi quando vede la sventura abbattersi su coloro che invidia. Il punto allora è se vi sia qualcosa di diverso da proporre, osservando le attuali circostanze di crisi economico-finanziaria.
Certamente occorre pensare a meccanismi correttivi delle sbandate a cui è soggetto il mercato globale. È probabile che le idee non manchino e – forse – le crisi di questi tempi riusciranno a vincere l’inerzia dei soggetti politici.
È però possibile riflettere anche a partire da un diverso punto di vista, chiedendosi che cosa dia reale protezione alla vita delle persone. Evidentemente il richiamo di Benedetto XVI invitava ad inoltrarsi in questa direzione, provando a scalfire la superficie di quell’ovvietà per cui «i soldi non sono tutto nella vita».
Per i cristiani è chiaro che una delle protezioni su cui si può veramente fare conto è un tessuto di relazioni di qualità, in cui con disponibilità e fiducia ci si è fatti carico dell’altro ed allo stesso tempo, ci si è messi nelle sue mani. Si direbbe che oggi, in tempi di ristrettezza di risorse, la parte più difficile consista nel farsi carico dell’altro; invece è vero il contrario: più difficile è mettersi nelle mani dell’altro. Il richiamo di Benedetto XVI va letto con questa chiave, perché sorge dai lavori del Sinodo in cui al centro dell’attenzione è la Sacra Scrittura e quindi uno dei luoghi fondamentali in cui i cristiani fanno l’esperienza dell’affidarsi e del mettersi «nelle mani» di qualcuno: nelle mani di una tradizione il cui compito è ulteriormente di consegnare nelle «mani» di Dio. Ma indipendentemente dallo specifico dell’esperienza dei cristiani, si può osservare che l’antica sapienza, specialmente monastica, aveva colto con finezza il cuore antropologico del problema: la cosa più difficile e delicata nell’umano è affidarsi. Difficile per il riconoscimento della precarietà delle proprie risorse, che l’affidarsi presuppone, difficile per il discernimento delle «mani» in cui mettersi, che l’affidarsi richiede. Eppure proprio la disponibilità a fidarsi e ad affidarsi è la chiave per non cadere rovinosamente. «Hai visto qualcuno caduto? Sappi – scriveva Doroteo di Gaza – che si fondava su se stesso. Niente è più grave che fondarsi su se stessi, nulla è più rovinoso che questo». Il primo problema allora non sono «le cose visibili come il successo, i soldi la carriera» prese in se stesse, ma il fatto che la persona pian piano sia portata a ritenere di dovere la propria stabilità alla propria abilità, alla propria capacità, alle proprie strategie. La questione per gli austeri anacoreti e cenobiti del deserto era chiara: se ritengo che la mia stabilità sia opera mia e se questa stabilità dovesse venir meno, chi mai potrà rialzarmi? Chi mi potrà soccorrere nella mia solitudine? Riconoscersi debitori e dipendenti – cosa che realmente tutti si è –, accogliendo il fatto di essere in altre mani, è il primo elemento di igiene spirituale verso cui Benedetto XVI ha indirizzato l’attenzione.
Evidentemente però c’è dell’altro. Occorre riporre la fiducia nelle mani giuste, in mani famigliari, di cui nel tempo si è potuto sperimentare il sostegno ed il calore. Nel contesto del Sinodo anche questa sottolineatura ha un significato particolare: come sarà possibile affidarsi alle mani di Dio se manca la frequentazione costante e quindi la familiarità con la Scrittura e con la tradizione che la legge e ne approfondisce il messaggio?
Si tratta di una avvertenza a sua volta declinabile in senso antropologico: occorrono tempo, esperienza e frequentazione per riconoscere le «buone mani». La fiducia esige la cura di rapporti personali, rapporti talvolta anche provati dal fare i conti con le fragilità che magari sopravanzano le buone intenzioni. La cura dei rapporti personali: questa è l’unica vera protezione che gli uomini possono offrirsi a vicenda, ed è qualcosa che riguarda da vicino anche il mercato. Su questo crinale corre infatti l’abissale differenza tra il piccolo negozio di telefonia un po’ fuori mano, dove si alternano il proprietario e una commessa con l’aiuto di un parente, ed il grande centro commerciale. Nel primo tre persone, sempre le stesse, ricarica dopo ricarica, acquisto dopo acquisto: sempre le stesse «mani» che ce la mettono tutta per corrispondere alla fiducia di chi passa, perché possa ritornare da persona prima che da «cliente». Nel secondo un va e vieni impersonale, una fiducia riposta in chissà quali «mani» che si ritraggono e lasciano a piedi se capita qualche guaio. Con buona pace delle campagne contro «l’abbandono del cliente» che non a caso vanno diffondendosi nella grande distribuzione.
I dissesti economico-finanziari a cui assistiamo offrono motivi seri di riflessione, anche dal punto di vista antropologico: ma la crisi anziché farci recedere dalla dinamica della fiducia nell’altro – cosa che ci porterebbe ad un ripiegamento anzitutto interiore ed a cadute ben più temibili di quelle di qualsiasi borsa – deve farci ricordare che la protezione è data dal fatto che l’altro abbia un volto, che le sue mani siano provate, che tra noi vi sia una relazione personale resa consistente dal tempo e dalla pratica. E se questo vale per gli acquisti telefonici e per ogni genere di commercio, figuriamoci quanto non valga nella condivisione di progetti di vita, affettivi e di lavoro. Dinanzi al patrimonio che è costituito dalle buone relazioni tra le persone, le «cose visibili» a cui rinviava Benedetto XVI ritrovano inevitabilmente le loro reali proporzioni.
 
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