Interrogato non molto tempo fa (17 marzo) dal Manifesto, Giorgio Agamben ha parlato della «sfida filosofica» lanciata dal pontificato di Benedetto XVI sui principi dell’organizzazione della società: «Occorre a questo proposito chiarire un equivoco della tradizione laica» – ha detto.

«Il vero problema non è che la Chiesa intervenga nella vita pubblica, ma che lo faccia troppo poco, e che si sia per così dire specializzata nella tutela della vita biologica e della famiglia (due cose, fra l’altro, che secondo la tradizione cristiana delle origini il cristiano deve essere pronto a sacrificare senza riserve). Invece di indignarsi perché il papa interviene nella sfera pubblica – cosa che è suo dovere fare –, gli si deve chiedere perché non prende posizione con la stessa energia per le infamie quotidiane, le guerre, le ingiustizie, la miseria, per le quali si limita a delle dichiarazioni generiche. È significativo che proprio quando lo Stato ha abbandonato la dimensione politica per la biopolitica, anche la Chiesa sembri voler limitare l’esercizio del potere spirituale alla sfera biologica.»
Ci sembra opportuno dare risalto a questo spunto. Ma anziché soffermarci sull’aspetto della critica ad una visione della laicità di stampo ottocentesco – certo interessante, ma anche scontato in un pensatore non banale come Agamben – il nostro intervento intende riprendere la critica alla tendenza della Chiesa a «limitare l’esercizio del potere spirituale alla sfera biologica», e proporre una osservazione che cerchi di tener conto sino in fondo della radicalità sia del pensiero di Agamben, che delle posizioni «biopolitiche» della Chiesa.
Agamben vede nella biopolitica la questione fondamentale della politica in generale. È nell’opera intitolata Homo sacer che la sua proposta teorica viene delineata in modo più sistematico. Nell’antica Roma l’espressione homo sacer designava colui che, colpevole di un delitto tale da mettere a rischio la pace tra dei e uomini su cui si fondava la città, non poteva essere sacrificato secondo il rito, perché la sua punizione spettava solo agli dei, e tuttavia poteva essere ucciso impunemente, perché si era posto al di fuori della comunità. Homo sacer è quindi per Agamben il paradigma dello «stato di eccezione», in cui vi sono dei casi che esulano dalla legge (non sacrificabilità) e che sono perciò sottoposti immediatamente al potere sovrano, che in quanto sovraordinato rispetto alla legge stessa è arbitrario (uccidibilità). La prestazione costitutiva del potere sovrano è allora la produzione di «nuda vita», ossia di vita spogliata di ogni caratteristica qualificante in termini sociali.
In questa visione, il «sacro», ed in particolare la sacertà della nuda vita, non rappresentano un valore assoluto e superiore rispetto al politico, come nella comprensione ordinaria del termine, ma sono anzitutto indici di un paradosso: una trascendenza rispetto alla legge significa infatti anche un abbandono, anzi un vero e proprio «bando» da parte della legge stessa; significa non tanto un ambito a cui conformarsi (non sacrificabilità), ma una terra di nessuno esposta all’arbitrio (uccidibilità). Indipendentemente dalla correttezza di tale etimologia del «sacro» viene messo così in luce un cortocircuito teorico che è estendibile anche all’idea del diritto naturale o del bene oggettivo o di ogni valore assoluto pre-politico: chi decide cosa è oggettivo e/o naturale? Come individuare un ambito pre-politico, se l’uomo è costitutivamente «animale politico», ossia esprime opinioni aventi validità solo soggettiva? Come dare valore pubblico agli assoluti trascendenti i singoli altrimenti che con il consenso?
Che le osservazioni di Agamben siano tutt’altro che infondate viene confermato da una circostanza che sovente si riscontra nei dibattiti di biopolitica e che – anche se sinora sembra non essere stata rilevata – ripete il doppio vincolo di homo sacer tra fatto e diritto: si tratta della tendenza a tentare vie giuridiche che, pur tenendo fermo un principio, ammettano tuttavia nella pratica un comportamento che lo nega. Si pensi alla recente proposta di moratoria sull’aborto, o alle legislazioni che sostengono la personalità giuridica dell’embrione e/o del feto, o il diritto alla vita del nascituro, e consentono tuttavia l’interruzione di gravidanza; o che vietano esplicitamente l’aborto, che viene però depenalizzato. I nascituri sono sovente uccidibili, ma non sacrificabili secondo la legge; e lo stesso dicasi per i morienti. Mentre le «moratorie» cercano di invertire in modo speculare la situazione. Il rapporto tra la politica e ciò che la precede e su cui sempre già deve intervenire – la «nuda vita» dequalificata di caratteri sociali e perciò pre-politica – è per sua natura paradossale: la nuda vita rappresenta un permanente stato di eccezione.
 Ma allora, proprio a partire dall’ambiguità innestata dal rapporto tra politica e vita, e riconosciutane la ricaduta effettiva nelle difficoltà giuridiche di cui si è detto, sembra possibile chiedere ad Agamben se le critiche esposte al Manifesto non si indirizzino solamente alla dottrina del diritto naturale o a quella del bene oggettivo, piuttosto che alle posizioni della Chiesa tout court. Non è forse possibile ritenere, proprio a partire dal suo paradigma teorico, che la vita non qualificata socialmente ma meramente biologica – i casi dei nascituri e dei morienti – rappresenti oggi il terreno principale su cui si gioca la resistenza alla strategia biopolitica del potere sovrano? L’attenzione particolare conferita dalla Chiesa alla vita biologica può essere chiarita quindi anche proprio come resistenza alle pratiche di potere biopolitico, e non come una ripetizione di esse. Più che come esercizio di un «potere spirituale» – e al di là degli strumentari concettuali cui talora si affida – la Chiesa concepisce infatti tale impegno in termini di un’azione liberante da vincoli e logiche opprimenti e di potere, sia esso spirituale o materiale.
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