L’antica atmosfera di provincia d’Oltrepo, con il suo patrimonio storico-artistico e i suoi paesaggi rurali piatti e perfettamente squadrati, trasmette uno strano senso di lentezza. Passeggiando per i centri storici delle cittadine di quest’area ci si imbatte in capolavori d’arte che arrestano il tempo, come la splendida basilica di San Francesco (XII secolo) della ducale Mirandola. Se si ha la buona sorte di avventurarsi fino alle periferie agricole, si possono ammirare le meravigliose cappellette ultrasecolari – si pensi alla romanica pieve di Santa Maria della Neve di Quarantoli – che spuntano improvvisamente tra le cascine monumentali e gli altri edifici dell’architettura rurale della Bassa, quasi a testimoniare il vincolo storico che esiste tra vita agricola e vita spirituale. E questo, naturalmente, non vale soltanto per Mirandola e per i suoi paraggi, ma per tutti i centri del comprensorio, da Poggio Rusco a Bondeno, passando per Sermide o virando per Finale.
Francesco Guccini probabilmente direbbe che la gente di questi luoghi è di poche parole ma capace di esprimere con un solo sguardo tutta la sua sobria religiosità che deriva dall’antico legame con la terra. Dev’essere sicuramente così, come stiamo verificando nel pieno di un dramma che ha messo in ginocchio migliaia di famiglie, oggi vittime di una “modernità” perversa che è a sua volta figlia di una follia politica tipicamente italiana.
Nel quadrilatero richiamato sopra si trovano i diversi epicentri dei terremoti, di magnitudo fino a 6.0, che tra domenica 20 e martedì 29 maggio hanno scosso violentemente tutta l’area e che, nel momento in cui viene scritto questo articolo, non si sono ancora esauriti. Il territorio che ne ha risentito in modo devastante è molto ampio e, facendo un conto minimalista basato su un ipotetico cerchio geografico con raggio di 20 Km tracciato intorno al comune di Finale Emilia (epicentro del sisma più forte), si può ragionevolmente affermare che al momento sono coinvolti in modo diretto una trentina di comuni delle quattro province già citate, a cui vanno sicuramente aggiunti almeno altri dieci comuni della provincia di Rovigo.
In termini più generali, tuttavia, l’alone geografico della crisi sismica in questione interessa una regione decisamente più larga (fino ad almeno 200 km). Tant’è, per esempio, che molti cittadini milanesi (come chi scrive) hanno perfettamente percepito sia le scosse della notte del 20 maggio sia alcune di quelle avvenute nei giorni successivi e, con particolare intensità, quelle del 29 maggio. A vibrare in modo chiaro, insomma, non è stata solo la Pianura padana emiliana ma tutto il nord Italia, e forse anche una parte cospicua dell’Italia centrale. Questo è un fatto del tutto normale quando un evento sismico o una serie di eventi sismici libera un’energia pari a quelle registrate il 20 e il 29 maggio scorsi (NB: il vecchio terremoto del Belice ebbe una magnitudo uguale a quelle registrate in questi giorni).
Una strana credenza porta a pensare che i terremoti che nei giorni scorsi hanno seminato vittime e devastazioni nella Pianura padana emiliana vadano considerati fenomeni rarissimi, quasi impossibili o ai limiti del possibile. I dati tuttavia smentiscono questa idea, dal momento che l’area colpita viene definita “a rischio medio” dalle mappe ufficiali di pericolosità sismica del territorio nazionale. Del resto, basta esaminare le registrazioni più recenti dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia per rendersi conto dell’equivoco. Per esempio, nell’ultima settimana di gennaio 2012, come molti abitanti del nord Italia ricorderanno, per almeno tre giorni consecutivi la terra ha tremato più volte a pochi chilometri di distanza dal quadrilatero citato in precedenza, e in particolare nel Frignano (magnitudo 5.4) in pieno Appennino modenese, e in Pianura padana nella provincia di Parma (magnitudo 4.9). Il 17 luglio del 2011, tra l’altro, una precedente scossa (magnitudo 4.7) ha fatto sobbalzare tutti i comuni che occupano la fascia di confine tra le province di Rovigo e Ferrara. Naturalmente, laddove non scatta l’interesse dei mass media per mancanza di notizie sensazionali e mediaticamente “forti”, la cronaca resta muta (e cieca!) ma questo non significa che nel frattempo gli avvenimenti non si verifichino ugualmente.
I terremoti sono manifestazioni dell’attività profonda della Terra che, come quasi ogni altro fenomeno naturale, accadono senza concedere alcuna possibilità di previsione precisa. In altri termini, non possiamo sapere in anticipo se un sisma si verificherà il tal giorno e nel tal luogo. Grazie ai dati storici e alla costante registrazione strumentale dell’attività sismica, comunque, sappiamo che alcune zone del paese, all’interno di orizzonti temporali misurabili in termini di mesi o di anni, denotano probabilità più o meno alte di essere colpite da un terremoto. È quindi con tale probabilità di occorrenza che dobbiamo fare i conti, soprattutto in Italia e in altre regioni del pianeta dove l’attività sismica è decisamente più intensa che altrove.
Questo significa che qualche buon accorgimento di prevenzione del rischio sismico, insieme a qualche buona misura di gestione tempestiva ed efficace dell’emergenza, possono essere messi a punto per ridurre sensibilmente i danni alle persone, alle cose e al territorio. Del resto si tratta esattamente di ciò che altri paesi sismicamente simili al nostro, come Giappone e California, hanno fatto da decenni, ben sapendo che investire in prevenzione e in gestione del rischio costa infinitamente meno che investire in ricostruzione; senza contare il dato importantissimo che non tutto è ricostruibile, a partire dalla vita delle persone.
Su questi due punti – prevenzione e gestione dell’emergenza – tuttavia, il nostro paese ha sempre fatto pochissimo, come insegna non solo la storia dei terremoti ma anche la lunga cronaca degli altri eventi a carattere idrogeologico e ambientale che hanno sconvolto il paesaggio italiano. Le istituzioni statali in tale materia si sono sempre limitate a fare a posteriori il conto dei decessi, dei feriti e degli sfollati, e in più, ovviamente, quello dei danni a imprese, famiglie, agricolture, corpi idrici, casse pubbliche, beni artistici, monumenti, strutture urbane, infrastrutture, e quant’altro.
Tanto per non perdere memoria delle nostre inadempienze istituzionali più rovinose, che regolarmente vengono a galla ogni volta che veniamo travolti dalle notizie sull’ennesima “calamità naturale”, basti ricordare le immagini inverosimili che la TV ci ha mostrato soltanto una manciata di mesi fa (novembre 2011) quando, lungo le strade del centro di Genova, centinaia di automobili, autobus e cassonetti dell’immondizia venivano spazzati via dalla furia dell’alluvione insieme a tutto ciò che incontravano. Ma è chiaro che andando a ritroso nel tempo la casistica delle negligenze ambientali che documentano la mancanza della pur minima traccia di cultura della prevenzione nella nostra classe dirigente sarebbe lunga e terribile, a partire dall’ancora freschissimo ricordo del terremoto dell’Aquila.
Deve essere molto chiaro che terremoti, alluvioni, frane e altri eventi che in termini di “causazione” dipendono solo in parte dalle dinamiche intrinseche dell’ambiente non sarebbero così pericolosi se, per quanto concerne i loro effetti, non venissero trasformati in potenziali armi di distruzione di massa da interventi umani come l’abusivismo edilizio, la cementificazione selvaggia, l’inquinamento, l’arretratezza urbanistica, gli incendi dolosi, i disboscamenti e la frammentazione degli habitat; in poche parole dall’incuria, che è figlia e al tempo stesso complice della speculazione e della corruzione politica/amministrativa.
Anche questa volta, dunque, a costo di sembrare disinteressati all’entità certamente importante dei terremoti che nei giorni scorsi hanno fatto tremare una zona così importante del territorio, dell’economia e dell’arte nazionali, bisogna enfatizzare l’arretratezza anzitutto culturale e politica di un paese che ha fatto dell’autolesionismo la cifra più evidente del suo perverso rapporto con il territorio, e che in materia di prevenzione dei disastri ambientali è fermo a mezzo secolo fa, ossia al tempo delle catastrofi del Vajont (1963) e del Belice (1968).
La buona notizia è che per recuperare il tempo perduto non occorrono misure miracolose o gesti eroici, ma semplicemente politiche pubbliche capaci di rompere in modo netto con il passato. Il nodo fondamentale è incorporare i principi della prevenzione e della precauzione in tutte le decisioni politiche in grado di interferire con la sicurezza del territorio, con la qualità dell’ambiente e con la tutela dei cittadini. Il guadagno sarebbe anzitutto economico, specie per le casse dello Stato, perché la stragrande maggioranza dei costi sia visibili che occulti prodotti dalla ricostruzione delle aree devastate – dal ripristino delle attività produttive al ritorno a una normalità ambientale e sociale accettabile – sarebbero evitati.
Occorre tuttavia un’ultima considerazione che forse andrebbe fatta a monte di ogni ragionamento sull’uso sostenibile del territorio e delle sue risorse. Gli investimenti per la ricostruzione di una regione martoriata da un terremoto vengono contabilizzati dal PIL, che quindi li trasforma in produzione di ricchezza. Il risultato, evidentemente contrario a qualsiasi principio di buon senso, è che una tragedia come quella emiliana o una qualsiasi altra catastrofe come quelle che conosciamo, anziché essere considerata un’offesa al paese o una sciagura da scongiurare con ogni mezzo, diventa un’occasione economica utile ad accrescere ciò che ancora oggi ci viene propinato come un indicatore affidabile del nostro “benessere”.
Quando torneremo a vedere il PIL per la mostruosità ideologica che è, e per le mille altre nefandezze che genera, allora ci libereremo di tutte le bolle e di tutti i pregiudizi che ci imprigionano in una realtà che non esiste, facendoci scordare il mondo vero là fuori, fatto di veri territori, veri esseri umani e vere economie. Fino ad allora, sarebbe meglio smettere di parlare degli effetti devastanti dei terremoti o di altri fenomeni analoghi come se fossero le normali e ineluttabili conseguenze di “calamità naturali”.