|

Questa settimana la sezione approfondimenti è dedicata alla crisi istituzionale post referendum irlandese. Quali prospettive si intravedono dopo l’ennesimo rifiuto al trattato UE?
 

Il disastroso venerdì nero dell’Europa di Luca Jahier. Segue Arrivederci Irlanda, e grazie! di Federiga Bindi

Mai nella storia dell’Unione cosi tanto è stato deciso da così pochi. Il No irlandese è stato uno tra gli eventi più temuti e dell’ultimo semestre. 4 milioni di persone, 3 milioni di elettori, ha votato poco più del 50% degli aventi diritto e poco più di 800.000 persone ha detto No alla ratifica del Trattato di Lisbona, fermando un processo che interessa e coinvolge direttamente 500 milioni di persone dell’UE e ove i Parlamenti di 18 paesi hanno già detto Si.
Il Trattato di Lisbona, che è una riedizione riveduta e corretta del già tramontato Trattato costituzionale di Roma del 2004, fermato allora dai No dei referendum francese e olandese del 2005, ufficialmente richiede l’approvazione unanime di tutti i 27 paesi membri per entrare in vigore e dunque tecnicamente anche questo Trattato ora è morto.

E’ assolutamente impossibile sapere ora che cosa succederà. Nessuno lo sa per davvero, sia tra coloro che invocano la continuazione del processo e l’esclusione di chi ha votato no, sia tra coloro che pensano bisogna trovare un altro modo di far tornare sui loro passi gli irlandesi (come già avvenne nel 2001, essendo l’unico paese in Europa che è obbligato ad un referendum, poiché il Trattato implica per loro revisioni del testo costituzionale). Del resto nelle prossime settimane tutti gli sherpa e i politici europei saranno all’opera ad inventare nuove “pezze” o improbabili piani “B”. Già la prossima settimana, il CESE è riunito in Slovenia, il PE sarà in sessione a Strasburgo e il 19 e 20 è riunito il Consiglio europeo che consegnerà la patata bollente ai francesi, facendo nascere azzoppato il loro semestre di Presidenza.
Probabilmente i governi e la Commissione si inventeranno un ennesimo <periodo di riflessione>, accompagnato da qualche nuova strategia di comunicazione e seguito da qualche astruso pateracchio. In attesa della prossima bocciatura. Mentre la Repubblica Ceka, che avrà la Presidenza dell’UE subito dopo la Francia, nel primo semestre 2009, quello delle elezioni europee per intenderci, ha già detto che a questo punto il Trattato è morto e la Cekia non lo ratifica più perché inutile.

In tutta Europa, ancora una volta, hanno ritrovato slancio ed entusiasmo le forze più euroscettiche. In Italia, alla solita Lega nord si è associata anche Rifondazione, ripetendo uno schema che va molto di moda in diversi paesi europei. La sinistra ha dunque esultato per la bocciatura operaia dell’Europa dei liberisti, dei burocrati e dei banchieri. Forse si riferiva al massiccio voto contrario dei principali distretti operai e popolari di Dublino. Ma è difficile non ricordare che la vittoria del No è stata soprattutto frutto di una gigantesca e costosissima campagna condotta dal Gruppo Libertas, creato e finanziato dal giovane uomo d’affari Declan Ganley e dal partito del Sinn Fein, appoggiato dalla stampa britannica di proprietà di Rudolph Murdoch e, si dice anche dai neocon statunitensi, via favolosi contratti militari. Gli slogan, tutti legati alla perdita di potere dell’Irlanda, al fatto che non avrebbe più avuto il controllo sul proprio futuro. Il draft più noto: “If you don’t knows, vote no” con riferimento ad un testo di 350 pagine che nessuno ha evidentemente letto.

Al di là di quanto molti commentatori vanno dicendo e scrivendo in queste ore, io credo che proprio qui stia il nocciolo della questione. Il No irlandese è un conferma della volontà di non mollare il diritto di veto delle singole nazioni, di voler rimanere dentro una logica assolutamente intergovernativa e non cedere sovranità secondo le logiche della democrazia maggioritaria (seppur con il meccanismo della doppia maggioranza qualificata, dei cittadini e degli Stati membri) e dare così la possibilità alle Istituzioni europee di scegliere e rispondere in modo chiaro delle proprie scelte. Una questione che si trascina sin dal Trattato di Maastricht (1992) e che vede, dal mezzo fallimento del Trattato di Nizza (2000) in poi, tutti i politici europei esercitarsi nel tentativo di superare lo scoglio del passaggio ad una fase reale di Unione politica, basata certo sul principio di sussidiarietà, ma anche su una maggiore semplificazione, trasparenza e divisione dei compiti tra livello europeo e livello nazionale, per mettere in grado la prima potenza economica del mondo di diventare adulta e di far fronte alle sfide mondiali, uscendo da una unanimità asfissiante e infine non democratica. E questo non è certo imputabile ai popoli, perché è la stessa logica dei governi che da anni e tutt’ora continuano a difendere strenuamente la terribile e perdente logica degli interessi nazionali. Come non ricordare il famoso caso della sedia vuota del 1965, quando la Francia dichiarò la crisi della CEE sulla questione delle risorse proprie della comunità e rientrò solo dopo il compromesso del Lussemburgo, dove si accettò, in sostanza, che ogni Stato potesse esercitare il diritto di veto invocando la clausola di salvaguardia di "interessi nazionali vitali". Facendo le debite proporzioni, non mi pare che si sia ancora usciti da quella logica, che si discuta dei seggi in Parlamento, del veto in Consiglio, delle questioni energetiche o della questione della riduzione del numero dei Commissari dal 2014…..! Siamo ancora al prevalente principio di unanimità, produttore del negoziato segreto tra i governi, che riduce al progressivo stallo tutta la delicata e complessa macchina delle istituzioni comunitarie e la consegna peraltro ad un esito del tutto contrario alla tanto invocata trasparenza democratica.

Questa crisi è molto profonda e assai più estesa di quanto la si voglia circoscrivere. Cosa sarebbe successo se anche in altri paesi si fosse sottoposto il Trattato al voto popolare? Non basta dire che queste materie vanno decise dai Parlamenti o che si è trattato solo di cattiva informazione.
Il problema vero è che oggi, al di là di una stanca tensione a costruire una Europa politica con maggiore e più rapida capacità decisionale, nessuno capisce veramente cosa l’Europa vuole essere e cosa vuole fare, quali sono oggi i vantaggi ad essere cittadini europei, se si debba e perché avere una missione nel mondo di oggi. Ha ragione Tremonti ad evocare in tutta Europa una crescente e preoccupante crisi dei ceti medi, i quali sono sempre più pieni di timore verso il futuro, verso l‘’sterno e verso gli immigrati. Chiedono sicurezza, che è quella personale ma anche quella sociale, che è sempre più vaga. Non so se, come dice Tremonti, questa crisi può portare a nuovi fascismi come accadde dopo la prima guerra mondiale e la crisi economica del ’29. So per certo che una Europa incapace di uscire dal buco delle proprie insicurezze particolari è destinata a un ben triste destino, non credo solo all’irrilevanza, ma ad una povertà crescente e anche ad un numero crescente di conflitti interni e tra i propri popoli. Una Europa senza coscienza delle proprie radici e senza capacità di visione è una eredita senza futuro, come già è successo a molti e rispettabili imperi del passato. Certamente non è in grado di far fronte alle sfide enormi di questo tempo, dal mercato del lavoro alla globalizzazione finanziaria e tecnologica, dall’energia al cambiamento climatico, dalla demografia all’immigrazione, per non citare che i maggiori temi che toccano violentemente e, per ora, senza risposte adeguate il nostro futuro.
L’Europa rischia di essere oggi un progetto sempre meno capito e amato dai suoi cittadini, ma non perché si comunica poco, ma perché i propri leader difettano di progetto politico. Sarebbe molto istruttivo a questo proposito rileggersi con molta attenzione la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950: 2 pagine scarse, con un progetto politico chiarissimo, economico, sociale e politico e, soprattutto, una visione di speranza e di impegno per il futuro di tutti.

E’ difficile dire da dove possano provenire oggi le energie necessarie a questo nuovo e urgente slancio. Non dalla società civile europea, che è molto elitaria (per quanto riguarda la dimensione europea) e spesso più interessata ai fondi europei o qualche politica settoriale che alla complessiva dimensione del progetto europee. Non dai partiti politici, che a livello nazionale si occupano mediamente di altro e a livello europeo sono ora assai frustrati, mentre si stavano preparando a gestire, con le prossime elezioni del 2009, una stagione importante di nuovi poteri e nuovi ruoli del Parlamento europeo, che aumentavano gli spazi di democrazia reale e sostanziale.
Anche nella stessa Chiesa cattolica si respira oggi una prevalenza di scetticismo e di reticenza sul progetto europeo. Complici forse gli eccessi di alcune pervicaci minoranze europee a voler imporre soluzioni inaccettabili in ordine a temi sensibili come la famiglia, i matrimoni omosessuali, la manipolazioni del vivente e l’eutanasia, che alimentano le ragioni di coloro che temono pericolose invasioni di campo. Senza dubbio siamo ben lontani dai tempi in cui i principali leader del processo europeo erano tutti dei cristiani convinti, sin dai padri fondatori, per arrivare allo stesso Delors, padre del Mercato Unico, dell’Europa sociale e iniziatore dello stesso processo che ha portato alla moneta unica. Così come siamo ben lontani da quella spinta formidabile impressa da Giovanni Paolo II al processo di riunificazione del continente, da lui pensato come “Europa dai due polmoni”. La forza di questa spinta spirituale è oggi quantomeno assai più fievole e certamente dubbiosa e ripiegata.

Forse resta una sola possibilità concretamente realistica e che è quella dell’Europa delle due velocità, evocata da lungo tempo anche da autorevoli europeisti italiani, Ma che sinora non ha mai prodotto atti conseguenti e leadership all’altezza del compito. Esiste un nucleo duro oggi, che è quello dei paesi che condividono anche la moneta unica. La maggior parte di essi, contro la potente burocrazia della Banca centrale europea, che ha pur molti meriti, sentono come inevitabili due passaggi politici: la necessità di dotarsi di una comune politica economica europea e anche la necessità di rilanciare una nuova e più significativa tappa dell’Europa sociale. Forse si può ripartire da qui, tralasciando qualche soluzione di maniera, mettendo da parte inutili ideologie, esercitando il sano buon senso e osando anche qualcosa di chiaro per le elezioni europee del 2009. Qualcosa che abbia il buon sapore del futuro, del progresso, della semplicità, della logica chiara del bene comune e della partecipazione dei cittadini. C’è da aspettarsi che la Francia giochi questa partita sin dalle prossime settimane e che in questo venga sostenuta dalla Germania e dall’Italia e da quegli altri paesi che hanno voglia di provarci, senza troppa melina. Se avremo dei leader all’altezza di questo compito, allora potremo recuperare il convincimento dei popoli europei, anche attraverso nuovi referendum, europei questa volta, altrimenti è meglio lasciar stare.
La storia provvederà lei, con la sua inesorabile velocità, a decidere per noi. E noi avremo solo l’angusto spazio di gestire un declino più lento oppure una rovinosa frantumazione.

Arrivederci Irlanda, e grazie! di Federiga Bindi

Gli elettori irlandesi hanno respinto il trattato di Lisbona 53,4% a 46,6%. Solo due delle 43 circoscrizioni irlandesi – Dublino Sud e Clare – hanno votato a favore del Trattato di Lisbona. La popolazione irlandese rappresenta l’1% della popolazione europea, l’affluenza alle urne è stata del 40% – in altre parole in Italia il referendum sarebbe stato considerato nullo. In altre parole, lo 0,2% della popolazione europea impedirebbe al Trattato di Lisbona di entrare in vigore. Ciò è chiaramente insostenibile.

Diciotto Stati membri hanno già approvato il Trattato, e il Presidente della Commissione europea José Manuel Durão Barroso ha giustamente affermato che il processo di ratifica deve continuare. Bloccare il tutto va contro qualsiasi semplice principio di rappresentanza democratica e, aggiungerei, di buon senso. Quindi, la soluzione può essere solo una: uscita, o meglio, secessione.

Ci sono infatti fondamentalmente tre possibilità: abbandonare il Trattato; modificarlo e ricominciare tutto daccapo; secessione dall’Unione dell’Irlanda.

La prima opzione – abbandonare il Trattato – non è una soluzione praticabile in quanto costituirebbe un suicidio politico per gli europei. L’Unione dei 27 funziona ancora in base ai dispositivi istituzionali della CEE dei sei e questo sta diventando sempre più insostenibile, sia a livello nazionale che internazionale. Non che il trattato di Lisbona sia la panacea, ma introduce una serie di importanti modifiche che farebbero la differenza. Solo per ricordarne alcune, a livello domestico, semplificherebbe la struttura dell’Unione e renderebbe più facile il processo decisionale grazie al maggiore ricorso al voto a maggioranza qualificata e ponendo fine alla distinzione tra politiche comunitarie e intergovernative, ad esempio negli affari interni e di giustizia. Consentirebbe inoltre una maggiore trasparenza in quanto il Consiglio si riunirebbe a porte aperte quando legifera. Esternamente, il ruolo dell’Unione europea nel mondo sarebbe facilitato dall’attribuzione all’Unione europea della personalità giuridica, e dall’introduzione del nuovo Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, del Presidente del Consiglio europeo e del Servizio europeo di azione esterna.

La seconda opzione – modificare il Trattato e iniziare daccapo – è altrettanto un opzione non contemplabile seriamente, pena la completa ridicolizzazione delle autorità politiche europee (comprendendo qui con questo termine anche i 27 governi nazionali). E, del resto, cosa mai potrebbe essere cambiato ancora? E vogliamo davvero credere che ulteriori cambiamenti farebbe la differenza per i cittadini? Sinceramente non credo, a meno che, naturalmente, non stiamo parlando di "opt-out” come nel 1992. Ma ci sono già troppe politiche europee a geometria variabile e estenderle ulteriormente rischia seriamente di compromettere il tutto. Allo stesso modo, pensare che un “nocciolo duro” di paesi possa ricominciare da capo non è un’alternativa seriamente considerabile.

Pertanto, rimane la terza opzione: uscita o, sarebbe più corretto dire, secessione. Da un punto di vista strettamente legale, l’attuale trattato non prevede la secessione – una possibilità che per ironia della sorte sarebbe introdotta proprio dal Trattato di Lisbona.

Tuttavia, vi è in parte l’esempio della Norvegia, la quale, dopo aver negoziato l’adesione alla CEE nel 1972 non ratificò il trattato proprio a causa di un voto negativo al referendum. La Norvegia ha così negoziato un accordo di libero scambio con la CEE e fa parte di numerosi programmi europei. In termini giuridici, sarebbe tuttavia impossibile avere l’Irlanda membro della CE e il resto dei paesi membri dell’Unione europea.

La secessione della Groenlandia dalla CEE nel 1982 offre un’altro esempio. In Groenlandia, una volta ottenuta la semi-indipendenza dalla Danimarca nel 1979, fu organizzato un referendum sulla permanenza nella CEE in seguito al quale essa recedette dalle Comunità (1982). Anche se le circostanze sono diverse, questo fatto dimostra che la secessione è una possibilità prevedibile anche in assenza di specifiche disposizioni nel trattato.

Essere membro dell’Unione europea comporta la cessione una quota di sovranità, e questo non è negoziabile. Tuttavia, non è obbligatorio appartenere alla UE. Si può essere membri associati e vivere felici. Norvegia, Islanda, Svizzera, Liechtenstein, Andorra, Monaco, Città del Vaticano, San Marino ne sono tutti esempi. Se gli irlandesi – o gli inglesi che verosimilmente saranno i prossimi a porre il problema – ritengono di poter meglio realizzare i loro obiettivi essendo al di fuori dell’Unione europea, che ciò sia. Ma è impensabile e irresponsabile che un 0,2% della popolazione dell’Unione europea impedisca al resto di andare oltre.

L’Unione europea è stata una faro ed un ancoraggio per la neodemocrazie del sud d’Europa negli anni 1950 e negli anni 1970, così come per i paesi dell’Europea Centrale ed Orientale negli anni 1990. Altri paesi, nei Balcani, sperano di aderire presto. L’Irlanda non può distruggere tutto – perché, intendiamoci, un’ulteriore battuta d’arresto oggi rischia seriamente di distruggere tutto.

L’Irlanda – e gli altri paesi euroscettici –  hanno il dovere morale di agire in modo responsabile e decidere cosa vogliono fare da grandi. Al tempo (1974), i pragmatici inglesi, all’ora del dunque, decisero di restare. Ma se si resta, si va avanti, non indietro. D’altro canto, i paesi pro-europei ed in particolare l’Italia hanno il dovere di smettere di fare la politica del pendolo e di agire con decisione. L’Europa è stata un campo di battaglia fino a 65 anni fa, non ce ne dimentichiamo. Con tutti i suoi difetti, l’integrazione europea è ancora la cosa migliore che il Vecchio Continente abbia prodotto.

Federiga Bindi, Visiting Fellow, The Brookings Institution, Washington DC

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?