La Clinton ha infatti vinto con stretto margine il Texas (51%, dove però i meccanismi elettorali favorivano il rivale) e con ampio respiro il Rhode Island (58%) ed in particolare lo stato dell’Ohio (54%), particolarmente importante nell’immaginario democratico perché nessun democratico ha mai vinto le Presidenziali se prima non aveva vinto le primarie dell’Ohio. Adesso è Obama a dire che quello che conta non sono il numero degli stati vinti bensì il numero dei delegati totale, un chiaro segno di debolezza per il candidato che aveva baldanzosamente annunciato che il 4 marzo ci sarebbe stato il knock out nei confronti della Clinton e che quest’ultima avrebbe fatto bene a ritirarsi. Obama mantiene un piccolo margine di vantaggio anche se il calcolo dei delegati non è univoco in quanto è assai difficile da fare con esattezza a stretto giro di posta.
Come dice giustamente Severgnini: “La vittoria di Hillary è la vittoria della determinazione. Non demoralizzarsi dopo 11 sconfitte consecutive è stata, di per sé, un’impresa. I ritmi imposti a un candidato sono spaventosi, e i nervi prima o poi cedono. Non quelli di Hillary Rodham Clinton”.
Per quanto alcuni esponenti democratici (in maggioranza quelli vicini ad Obama!) si preoccupino che l’innalzarsi dei toni possa danneggiare i Democratici, il cambio di strategia ha pagato: Hillary in fatti risulta aggressiva come carattere, come tipo, una caratteristica che nelle donne viene spesso condannata. Ma a questo non corrispondeva fino ad adesso un eguale livello di aggressività del discorso, tutto basato sulla concretezza e sulle cose da farsi. Insomma, la Clinton non riusciva a vendere i suoi punti di forza (la capacità, l’esperienza, la concretezza) che addirittura finivano per ritorcersi contro a lei. Negli ultimi giorni la Clinton ha dunque cambiato musica, cominciando con un “Shame on you” e attaccando Obama per le sue posizioni non chiare sul liberismo, sul futuro del NAFTA, sulla politica estera ed in particolare sicurezza nazionale, argomentando che il Senatore dell’Illinois non sarebbe all’altezza se fosse svegliato nel mezzo della notte per lo scoppio di una crisi internazionale. Ed il cambio di passo, evidentemente, le ha giovano.
Per altro la Clinton ha vinto nonostante una disponibilità di fondi inferiore a Barak Obama, che ha davvero giocato il tutto per tutto dal punto di vista mediatico, e nonostante che i grandi media USA, all’inizio suoi grandi sostenitori, siano oggi in gran parte schierati dalla parte di Obama. Ad esempio, se all’inizio della settimana la stampa USA suggeriva che Obama aveva un “piccolo vantaggio” sulla Clinton, ieri si diceva che aveva un “enorme vantaggio” su quest’ultima. Perché la stampa sia schierata a favore di Obama è difficile da spiegare fino in fondo: sicuramente conta il fattore novità – la stampa è sempre assetata di novità mentre sulla Clinton negli anni passati si è ormai detto tutto ed il contrario di tutto. Poi conta certamente l’entusiasmo che Obama riesce a far venire fuori dai giovani (e non solo), ed il fatto che all’inizio della campagna le sue chance erano considerate pari a zero. Ma il fattore novità a poco a poco tenderà a scomparire, mentre il messaggio “nuovo” (e diverso) rischia di essere invalidato nelle prossime settimane dal processo per corruzione che si aprirà lunedì a Chicago contro un sostenitore della sua campagna. L’Ufficio federale delle tasse sta inoltre indagando a proposito di una conferenza oceanica di fronte a dieci mila militanti, dopo la decisione di Obama di concorrere alla carica presidenziale, per aver violato la restrizione di attività per i gruppi “ non profit”, cosa che potrebbe comportare multe e conseguenze sul piano della credibilità etica.
Insomma, le primarie andranno avanti fino a giugno e forse anche oltre se non ci sarà, come è molto probabile, un netto vincitore. C’è infatti la questione degli “Stati ribelli” – Michigan e Florida – che sono stati “puniti” dal partito democratico per aver anticipato la data della primarie contro la volontà del National Democratic Commitee e che in teoria non manderanno delegati alla convention nazionale. Ma si tratta di una decisione difficile da tener ferma. Vi potrebbe essere un ricorso, specie da parte della Clinton che nei due stati ha vinto. Ma c’è anche da tenere presente che tagliare fuori due stati tanto fondamentali nella corsa finale a novembre (ed in ciascuno dei quali oltre un milione di persone sono andate a votare!) potrebbe essere autolesionistico da parte dei Democratici. Poi ci sono i circa 800 “grandi elettori” (governatori, ex presidenti, notabili del partito, ecc.) che hanno libertà di voto fino all’ultimo momento. In un primo momento in grande favore per Hillary, poi sembravano aver in parte cambiato rotta, adesso dopo il 4 marzo si vedrà.
Il prossimo appuntamento è il Wyoming (8 marzo) e poi il Mississippi (11 marzo) ma soprattutto, il 22 aprile, la Pennsylvania con i suoi ben 188 delegati che potrebbero fare la differenza.
Da parte sua John McCain ha ufficialmente raggiunto il quorum di delegati necessari per essere il candidato repubblicano alle prossime presidenziali del 4 novembre, nonostante che all’inizio delle primarie pochissimi avevano scommesso sulla sua nomina.
I leaders democratici si stanno adesso arrovellando sulla seguente domanda: visto che il campo repubblicano la nomination c’è già, questo favorirà o sfavorirà Mc Cain alle elezioni di novembre? Due sono le scuole di pensiero: la prima è che la lotta tra Obama e la Clinton sta portando un beneficio notevole ai Democrats in quanto attira l’attenzione dei media. Inoltre c’è la questione dei nuovi militanti: in un paese dove sostanzialmente ci sono solo due partiti, quando una persona sceglie un partito tende a rimanervi per sempre. I casi di passaggio sono rarissimi in quanto vengo ad essere vissuti come un tradimento. In tal senso Obama è prezioso per i Democrats perché sta attirando nel loro campo moltissimi giovani che altrimenti sarebbero stati avulsi alla politica. Le analisi tendono inoltre a mostrare che i giovani che hanno votato alle primarie andranno a votare anche alle presidenziali il 4 novembre.
L’altra scuola di pensiero invece è preoccupata dal fatto che John McCain abbia adesso tutto il tempo necessario per preparare la campagna elettorale e, cosa determinante nelle campagne USA, per fare fundraising in suo favore.
In realtà, più di ogni altra cosa, sarà interessante capire cosa dirà e farà John McCain nei confronti dei due candidati democratici. Ottenuta la nomination, McCain può infatti smettere di temere la destra repubblicana che comunque alla scelta tra un repubblicano ed un democratico voteranno il primo (specie se il democratico sarà, come sarà, una donna o di colore) e concentrarsi sul futuro della campagna presidenziale. Il tono del suo discorso di McCain può infatti avere indirettamente un’influenza notevole sulle scelte democratiche, ed è proprio in questo che si concentra il suo vero vantaggio.
Ad esempio McCain può accreditare uno dei due come il diretto rivale, o può contribuire a discreditare uno dei due agli occhi dell’opinione pubblica. Dunque per McCain il più cruciale e difficile problema da risolvere adesso è capire chi sarebbe il candidato più debole contro di lui a novembre e cercare di favorire quest’ultimo nella corsa. Un mese fa i Republicani temevano più Obama che Hillary perché il primo, meno conosciuto, sarebbe meno prevedibile. L’impressione è che, con il passare del tempo, le cose stiano lentamente mutando, specie se le inchieste e le accuse dell’ufficio federale delle tasse avessero un seguito importante, togliendo smalto al nuovismo di Obama. In tal caso la Clinton sarebbe il rivale più temibile per McCain e dunque a questi converrebbe favorire il Senatore dell’Illinois.
Federiga Bindi, Visiting Fellow, The Brookings Institution e Jean Monnet Chair, Università di Roma Tor Vergata