Si apre domani mattina, nel tribunale dello Stato Città del Vaticano, il processo a Paolo Gabriele, il maggiordomo di papa Benedetto XVI accusato del furto di documenti riservati di proprietà del pontefice. Come si ricorderà, lo stesso Gabriele, arrestato lo scorso maggio, ha ammesso la sottrazione di questo materiale riservato che, una volta fotocopiato, è finito in pasto ai corvi svolazzanti attorno a San Pietro, alimentando bassi appetiti, vendette, giochi delle parti, tentativi di screditare la Chiesa e magari di acquisire notorietà nel panorama editoriale.

Assieme a lui sarà processato Claudio Sciarpelletti, il tecnico informatico della Segreteria di Stato rinviato a giudizio per favoreggiamento.
Tutto è pronto nei locali del tribunale, ieri mattina mostrato in una clip ai giornalisti presenti in sala stampa vaticana al briefing con il portavoce padre Federico Lombardi e il professor Giovanni Giacobbe, promotore di giustizia della Corte d’Appello vaticana.
Un approfondimento di natura tecnica per comprendere a fondo quello che fuori dai confini vaticani sarebbe l’evento processuale-mediatico dell’anno.
Ma al di là delle mura leonine vige il più stretto riserbo per una brutta storia che ha creato un comprensibile sgomento nel papa. Il processo sarà pubblico ma di fatto saranno poche le persone ammesse a partecipare, con una modesta rappresentanza di giornalisti di agenzie di stampa e carta stampata. Niente telecamere che riprenderanno soltanto i primi istanti, niente telecamere a circuito chiuso.
Del resto quella sala del tribunale, sul cui retro si apre la camera di consiglio dominata dallo sguardo attento del ritratto di Pio XI, ospita appena una trentina di processi all’anno.
Un tranquillo tran tran dove i reati ricorrenti sono quelli di furto, scippo e simili, commessi soprattutto in piazza San Pietro. Negli annali della giustizia vaticana si ricorda appena un processo per droga, il primo nella storia giudiziaria dello Stato del papa, al termine del quale fu condannato per possesso di stupefacenti un dipendente pizzicato con una dose di cocaina nel cassetto della scrivania.
Neppure il grave fatto di sangue, consumatosi nel 1998, con l’uccisione del comandante delle Guardie Svizzere Alois Estermann e della moglie Gladys Romero, sfociò in un processo. Quello che secondo le indagini sarebbe stato il responsabile, Cedric Tornay vice caporale del corpo, nonostante i tanti dubbi alimentati da più parti, fu trovato morto assieme ai due coniugi, secondo le indagini suicida. E quindi la vicenda fu archiviata.
Ultimo caso è quello della giovane svizzera che nella notte di Natale del 2009 scavalcò le transenne nella basilica vaticana e, nel tentativo di avvicinarsi al papa, lo fece cadere. Anche in questo caso il processo non è stato celebrato per infermità mentale della donna.
Paolo Gabriele e Claudio Sciarpelletti potrebbero anche decidere di non essere presenti in aula, il processo si svolgerà comunque come previsto dalle fonti normative adottate dal Vaticano, ovvero il vecchio codice penale Zanardelli di impronta decisamente più liberale rispetto al successivo codice Rocco entrato in vigore durante il fascismo.
La differenza principale, dal punto di vista processuale, rispetto a un processo celebrato su territorio italiano, è che la direzione del dibattimento spetta al presidente del tribunale (composto da tre giudici di cittadinanza italiana), quindi niente cross examination, ovvero le domande incrociate tra le parti. Sul territorio vaticano sarà lo stesso presidente che rivolgerà le domande all’imputato, sulla base di quanto richiesto dal promotore di giustizia (il nostro pubblico ministero) e dalla difesa. Inoltre in fase processuale confluiranno tutte le prove raccolte nel corso dell’istruttoria formale, tra le quali le dichiarazioni dei testimoni che, se ritenuto opportuno ai fini del dibattimento, potranno essere convocati anche in quella sede.
Fermo restando quanto potrà emergere di inatteso, anche relativamente a eventuali nuovi elementi di reato o al coinvolgimento di altri soggetti, dei due imputati quello che rischia di più è naturalmente Paolo Gabriele cui potrebbe essere comminata una pena sino a tre anni di reclusione che, con le aggravanti, potrebbe arrivare a quattro. In quel caso il Vaticano dovrebbe rivolgersi all’Italia per la detenzione, non esistendo carceri sul proprio territorio.
Ma non è detto che questa eventualità si verifichi: innanzitutto perché non ha valore il vecchio adagio secondo il quale "la confessione è la regina delle prove" in quanto sono comunque necessari elementi probatori certi per evitare che la sentenza possa essere impugnata dalla difesa.
In secondo luogo c’è l’ipotesi che papa Benedetto perdoni Paoletto, così come veniva familiarmente chiamato tra le stanze vaticane. Una volta concluso il processo, il pontefice potrebbe concedere il perdono, facendo così venire meno gli effetti di una eventuale condanna.
Alla chiusura del cerchio manca il canale attraverso cui sono stati diffusi i documenti, finiti principalmente nel libro di Gianluigi Nuzzi per il quale si potrebbe ipotizzare il reato di ricettazione. Ma si sta parlando di due stati diversi: Gabriele e Sciarpelletti avrebbero compiuto i reati di cui sono accusati in territorio vaticano mentre Nuzzi ha operato sul suolo italiano che, ovviamente, non è soggetto ad azione penale da parte dello Stato della Città del Vaticano.

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