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Strasburgo, 3 novembre 2009: una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilì che l’Italia doveva rimuovere il Crocifisso dalle aule scolastiche, accogliendo il ricorso presentato da Soile Lautsi Albertin, cittadina italiana di origine finlandese, “in nome del principio di laicità dello Stato”. La sentenza, che suscitò clamore e critiche in tutta Europa, si rivela miope sotto il profilo giuridico costituzionale e profondamente ipocrita per i presupposti etici di libertà che ogni Stato democratico è chiamato a garantire.

Davanti alla Grande Chambre della Corte di Giustizia a Strasburgo qualche giorno fa si è discusso il ricorso presentato dal Governo italiano – e sostenuto da parecchi Paesi europei, in particolare di fede ortodossa quali la Russia – contro quella pronuncia ispirata ad una visione ideologica e settaria della libertà religiosa.

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La ricevibilità del ricorso è un primo importantissimo passo per ribaltare il giudizio di primo grado. Si apre ora la seconda fase, e cioè quella di un nuovo giudizio da parte della Grande Chambre riguardo la presunta violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo da parte dell’Italia a seguito dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche.
Occorrono alcune osservazioni generali sulla delicatissima questione oggetto del ricorso del governo italiano: in gioco è, secondo tutti gli esperti di diritto coinvolti nella sentenza Lautsi vs Italie, il diritto di libertà per eccellenza di ogni persona umana, ovvero la libertà di religione e le sue manifestazioni nella sfera pubblica.
E’ bene rammentare subito che la Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo non è emanazione istituzionale dell’Unione europea, ma del Consiglio, organizzazione internazionale che riunisce molti Stati non facenti parte della UE, i cui orientamenti sono spesso in disaccordo con i principi fondamentali che ispirano la normativa comunitaria sulla libertà religiosa: è questo il caso della Turchia, che dietro il velo della laicità di Stato sostiene de facto l’islam come religione nazionale discriminando violentemente ogni altra manifestazione di fede in pubblico.
In buona sostanza si è osservato che questa sentenza è il frutto del lavoro di una Corte che, sotto l’egida del Consiglio d’Europa, rischia di seppellire il senso stesso del progetto di unificazione culturale europea – prima ancora che economico e politico – come pensato dai Padri fondatori De Gasperi, Adenauer, Schuman.
La decisione della Corte di Strasburgo costituisce un classico esempio di antiquata impostazione laicista che rinchiude la manifestazione della libertà di religione, in particolare quella cristiana, in un vero ghetto, escludendola dai presupposti etici pre-politici che ogni Costituzione democratica liberale assume come canoni ermeneutici della propria esistenza. Le motivazioni della sentenza si inquadrano nella prospettiva per cui l’esposizione di ogni simbolo religioso lede il diritto di scelta dei genitori su come educare i figli, quello dei minori di credere o meno, e lede anche il “pluralismo educativo”
Il giudizio della Corte risulta illogico e quanto meno incerto nel suo contenuto.
La sentenza disconosce dunque il ruolo della religione, in particolare quella cristiana, nella costruzione della società civile e del diritto pubblico e promuove un indifferentismo religioso che è in profonda contraddizione con la storia, la cultura e il diritto del popolo italiano e dei popoli europei. Il Crocifisso rappresenta un simbolo religioso, culturale e identitario e proprio per questo non ha mai assunto una valenza coercitiva, come invece sostiene la Corte nella sua sentenza.
Come hanno viceversa testimoniato le precedenti decisioni prese dal Consiglio di Stato in Italia, il Crocifisso rappresenta un elemento di coesione identitaria fondato sui valori e presupposti etici che animano la Carta fondamentale del nostro Paese, in una società che non può prescindere dalla sua tradizione cristiana riconosciuta e promossa addirittura nella Costituzione. Ne deriva che se togliessimo il crocifisso dalle scuole, in quanto luoghi pubblici, dovremmo togliere tutte le croci e le magnifiche opere sacre che sono presenti nelle nostre strade e nelle nostre piazze, il che sarebbe senza dubbio assurdo. 
Nel corso del dibattimento a Strasburgo i relatori hanno concentrato il fuoco di fila contro le valutazioni della Corte di Giustizia su tre temi fondamentali di natura giuridica costituzionale che sono alla base della illogica sentenza: i principi di neutralità dello Stato, di laicità attiva e negativa e di sussidiarietà.
Il celebre giurista statunitense di fede ebraica Joseph Weiler eletto a patrocinare i ricorsi degli Stati che si sono costituiti in giudizio a fianco dell’Italia, ha rimarcato l’estrema pericolosità del concetto di neutralità dello Stato in campo giuridico affermato dai giudici della Corte di Giustizia: lo Stato, proprio perché il suo compito primario è quello di tutelare, promuovere e garantire le plurime manifestazioni della libertà di pensiero dei cittadini, in forma individuale come associata, non può esimersi dal considerare il fattore religioso in sé all’interno della sfera pubblica della società civile.
Disinteressarsi della dimensione sociale – pubblica – della fede religiosa di una comunità civile significa discriminare una delle manifestazioni di identità culturale che sottendono alla definizione dei valori pre-politici della Carta costituzionale.
Il tentativo di ricondurre ad una “privatizzazione “ della fede del Cristianesimo, escludendo l’apporto fecondo che il comune sentire religioso della società italiana apporta nella dimensione pubblica equivale a discriminare la religione rispetto alle molteplici manifestazioni associative di pensiero in pubblico.
Va da sé, rileva Weiler, che sia compito di ogni Stato assicurare i modi e le forme del pluralismo religioso e della tolleranza nel rispetto reciproco, ma sempre e comunque impegnandosi a considerare, promuovere, garantire i valori religiosi, etici, pre-politici che animano la società.
In ciò si inserisce il valore precipuo del principio di sussidiarietà, principio costituzionale dei Trattati UE partorito dalla Dottrina Sociale della Chiesa (con l’Encicilica Quadragesimo Anno del Pontefice Pio XI) di cui spesso – capziosamente – se ne dimentica l’origine.
Il principio di sussidiarietà della UE impone infatti che le istituzioni europee lascino i Paesi membri liberi di legiferare in materia di libertà religiosa, senza imporre decisioni autoritative, ma limitandosi ad armonizzare le leggi nazionali con quelle europee.
La Corte di Giustizia ha invece assunto una posizione oramai obsoleta e retrograda a livello costituzionale ispirandosi alla cosiddetta “laicità negativa”, concetto di impronta illuministica: con il pretesto di imporre l’indifferenza dello Stato sulle questioni religiose per rispetto al pluralismo delle fedi, si finisce per impedire, discriminare, non tutelare l’espressione della libertà religiosa della maggioranza dei cittadini in ambito pubblico.
Ad oggi invece si coglie, nel programma politico-istituzionale di attuazione dell’unificazione europea, la tentazione, come è tipico del caso Lautsi, a cedere ad un’applicazione del concetto di laicità “negativa”, o “escludente” o “discriminatoria”.
Ancor oggi il termine ‘laico’ mantiene una valenza semantica negativa ed un significato dedotto in maniera indiretta. In breve: dice, di una persona, di una istituzione o di un pensiero ciò che non è, piuttosto che ciò che è. Esso esprime, insomma, una alterità, una opposizione (più o meno radicale) ad un dato o ad una tradizione di matrice religiosa, sovente cattolica.
Ben altro valore propositivo presenta il principio di “laicità positiva”, che prevede il necessario riconoscimento di un margine d’apprezzamento da parte degli Stati alla religione, alla fede come fattore sociale che a pieno diritto deve essere tutelato e promosso in ambito pubblico, come espressione dell’identità culturale di una determinata società civile.
In caso contrario i valori enunciati nelle Carte costituzionali occidentali si riducono a sterile esercizio di stile: ricordando il giurista e filosofo Passerin d’Entreves, la legge non è solamente una misura dell’azione, ma è pure un giudizio di valore dell’azione. La legge, infatti, indica ciò che è bene e ciò che è male: ed a loro volta il bene ed il male sono le condizioni che giustificano un obbligo giuridico.
E’ dunque l’intima relazione tra morale e diritto il tratto distintivo di una equilibrata e matura normativa in materia di libertà religiosa, come in ogni altro ambito dei valori non negoziabili della libertà umana.
Occorre concludere che il fenomeno religioso, e in particolare l’eredità cristiana dell’Occidente, costituiscono un dato primario ed essenziale anche a livello politico-normativo che resta tale nonostante l’opposizione e la negazione.
Posta innanzi a queste prove, l’Europa, deve essere costretta a ripensare quella stessa nozione di laicità che è scaturita dal suo seno, come uno dei caratteri peculiari della propria civiltà. Il limite consiste nel carattere astratto – puramente razionalista – che la laicità ha ricevuto all’atto della nascita e che la Sentenza Lautsi tradisce in misura palese. La pretesa illuministica di rinvenire una lex uguale sotto ogni latitudine – e perciò universale – non poteva formulare, di necessità, altro concetto di laicità discriminatoria e anticristiana.
Tutti i cittadini sono senz’altro uguali di fronte alla legge e nessuno può essere, di conseguenza, discriminato per le proprie convinzioni, religiose o d’altra natura.
Questo principio, solennemente proclamato dalla nostra Costituzione repubblicana e senz’altro intangibile, non impedisce di riconoscere il ruolo decisivo del Cristianesimo nella costruzione del nostro continente, del nostro paese fino a modellarne il paesaggio, la lingua, i comportamenti sociali, il pensiero politico e giuridico.
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