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La remissione della scomunica dei vescovi consacrati da Monsignor Lefebvre non basta a superare le contrapposizioni che avevano determinato la frattura. Il tema rimane quello del significato del Concilio e del rapporto fra la Chiesa e il mondo moderno.

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Sul sito ufficiale del distretto italiano della Fraternità Sacerdotale San Pio X le «opposizioni irriducibili» sulle quali si consumò il distacco fra monsignor Lefebvre e la «Chiesa conciliare» sono riassunte nel rifiuto della nuova messa in nome di quella tradizionale e nella denuncia delle «novità dottrinali» che sarebbero state da sempre condannate dal Magistero romano: libertà religiosa, falso ecumenismo, collegialità. Il primo ostacolo era stato rimosso da Benedetto XVI già nel 2007, con il Motu proprio che consentiva di tornare a celebrare la messa secondo l’antico rito tridentino. Il decreto di remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre nel momento in cui decise di portare fino in fondo la sua rottura con il Papa sembra ora rendere ancora più vicina la definitiva ricomposizione della frattura, ma non dice nulla sul secondo aspetto. La soddisfazione che non può che seguire la notizia che una scomunica non c’è più – di chiunque si tratti – viene così accompagnata da una misura di prudenza: si rinvia ad ulteriori, «necessari colloqui» per una «piena e soddisfacente soluzione del problema posto in origine».
Il Decreto firmato dal Cardinale Re, in effetti, cita una lettera del 15 dicembre 2008 con la quale Mons. Bernard Fellay, anche a nome degli altri tre Vescovi, tornava a chiedere il ritiro della scomunica. La «volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre forze al servizio della Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo», della quale in tale lettera si dichiara di accettare «con animo filiale» gli insegnamenti, è di per sé abbastanza vaga. Monsignor Lefebvre ha sempre negato di essersi allontanato da essi, contestando piuttosto il “tradimento” che si sarebbe consumato con il Concilio. Per questo, mentre non si può che condividere la disponibilità a valorizzare tutte le occasioni di unità, rimane doveroso interrogarsi sul significato di questa riconciliazione e, soprattutto, sulle prospettive che si aprono. Non si può tacere come lo stesso Fellay abbia ribadito in una lettera agli «amici e benefattori» del 23 ottobre 2008 che lo spirito del Vaticano II è «l’origine e la principale causa delle attuali sciagure della Santa Chiesa». Dal Papa ci si aspettava semplicemente «un atto unilaterale», senza condizioni. E ciò appunto per non lasciare ambiguità «sulla questione dell’accettazione del Concilio, delle riforme, delle nuove attitudini tollerate o favorite».
È adesso proprio per «questo atto unilaterale, benevolo e coraggioso» che Fellay ringrazia il Pontefice nella lettera ai fedeli con la quale comunica la decisione del Vaticano. La mancata sottolineatura di tale unilateralità nel comunicato “ufficiale”, ovviamente, non fa che aumentarne l’importanza. E il Superiore Generale della Fraternità prosegue a questo punto, con tutta coerenza, affermando che la scomunica non è mai stata tale in sé (di fatto negando l’autorità del Pontefice che si era infine sentito costretto ad un passo così grave) e che ciò non può che confermare tutti nella «convinzione di restare fedeli alla linea di condotta tracciata dal nostro fondatore Mons. Marcel Lefebvre, di cui noi speriamo la pronta riabilitazione».
Sembra non esserci insomma alcun passo indietro rispetto alle tesi sulle quali si consumò la rottura e delle quali si aspetta anzi la piena «riabilitazione». È proprio per questo che la remissione della scomunica non risolve il problema e non potrà mancare, da parte della Santa Sede, una chiara indicazione delle condizioni intorno alle quali potrà realizzarsi la piena comunione ecclesiale. In caso contrario, è facile prevedere incomprensioni, disagio e forse anche nuove lacerazioni. La rivista «Nova et Vetera», sempre consultabile on-line sul sito della Fraternità, pubblica nel numero 6/2008 il testo di una conferenza di Lefebvre del 1965. È sufficiente un passo per restituire lo spessore, la oggettiva inconciliabilità delle posizioni che prima Paolo VI e poi Giovanni Paolo II si trovarono a valutare: «L’uomo avrebbe il diritto a partire dalla sua dignità umana – intendetela come volete – di aderire e di praticare pubblicamente la religione che percepisce nella coscienza. Un’affermazione simile è spaventosa, e gravida di conseguenze. È raccapricciante». Questa è la fedeltà alla Chiesa alla quale la comunità di monsignor Lefebvre si è sempre richiamata. Questa è la fedeltà che – è almeno lecito immaginare – i suoi seguaci intendono riportare dentro la Chiesa cattolica, proseguendo la loro battaglia contro i grandi errori dei diritti dell’uomo, della libertà di religione, della laicità delle istituzioni.
Ma questi presunti grandi errori sono i valori con i quali coincide per la stragrande maggioranza dei fedeli l’orgoglio di appartenere alla comunità cristiana, cercando così di servire la causa dell’uomo. Certo con molti limiti ed effetti non sempre condivisibili, come è inevitabile quando si sceglie la strada della libertà. E tuttavia con una disponibilità sincera a condividere le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini. Questa maggioranza deve sapere se è possibile, oggi, appartenere a pieno titolo alla Chiesa cattolica, esserne sacerdoti e vescovi, sostenendo che la libertà di coscienza difesa nella Dignitatis humanae è davvero una delle sciagure del nostro tempo. Se non è così, dov’è il riconoscimento dell’errore da parte dei lefebvriani? Quale sarà il limite dei «necessari colloqui» dei quali è auspicabile un rapido inizio? È arduo ritenere – ed è anzi per molti francamente inaccettabile – che qui si tratti semplicemente di opinioni personali, meno decisive di quelle che si confrontano per esempio sui valori “non negoziabili” della bioetica. Così come è arduo accettare la tesi del direttore della sala stampa vaticana sul negazionismo del vescovo Williamson. La puntualizzazione che si tratta di questioni distinte è ineccepibile. E tuttavia molti cattolici non ritengono che la negazione dell’esistenza delle camere a gas appartenga alle «personali posizioni criticabilissime di una persona». Sono convinti che una tale affermazione sia semplicemente incompatibile con gli obblighi di umanità e verità della propria fede e, certamente, con il ministero episcopale. Per questo attendono, fiduciosi, che la Chiesa lo ribadisca.
 
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