In tempi più recenti, e con intenti opposti, si è segnalata l’iniziativa londinese di Ariane Sherine, – sostenuta dal biologo Richard Dawkins – che ha avviato una campagna pubblicitaria via autobus per segnalare ai concittadini che «probabilmente Dio non esiste», invitando di conseguenza a «smettere di preoccuparsi ed a godersi la vita».
La campagna è stata da poco promossa in Spagna ed oggi sbarca anche in Italia. Come hanno puntualizzato i promotori locali, il «nuovo prodotto», reclamizzato attraverso i box pubblicitari dei mezzi pubblici, non è l’ateismo, ma l’esistenza un’associazione che attorno alla bandiera dell’ateismo si raccoglie. Quindi la campagna punta a radunare, non a convincere o a convertire. Convincere e convertire rimane tuttavia la mission dell’associazione promotrice e dei suoi aderenti, che spesso ingaggiano gustosi duelli libreschi o televisivi con rappresentanti della bandiera opposta.
Certamente nessuno penserà che si possa convertire altri con la sola forza di uno slogan. Però possiamo chiederci se davvero cambiano le cose quando, invece di uno slogan, troviamo una sottile argomentazione o una serie di battute affilate ed incalzanti. Può essere allora interessante riflettere sulla mentalità da cui nasce questo genere di tentativi di persuasione.
Lo schema di gioco che si suppone è tipicamente dialettico: due campioni sostengono due posizioni opposte — immaginiamo sullo sfondo un pubblico da talk-show — e si sfidano a duello intellettuale. Chi prevarrà? Chi emergerà in arguzia? Chi troverà la battuta più efficace? Chi costringerà l’avversario alla contraddizione ed al ritiro?
Il punto controverso da segnalare è proprio la mentalità dialettica, quella per cui lo scopo del confronto è di superare l’avversario, riaffermando se stessi e costringendolo ad ammettere la propria sconfitta (e a farsi da parte). È il dibattere (e talvolta anche il dialogare e confrontarsi) come spesso lo intendiamo noi moderni. I medievali sono invece testimoni di un altro approccio, anche nella vita intellettuale: adottano per lo più una mentalità secondo cui, per venire a noi, l’unica forma verbale che corrisponde al sostantivo «conversione» non è «convertire», ma «convertirsi».
Comprendiamo meglio la cosa se per un istante ricordiamo che il XII Secolo è sì il momento delle università (e della ripresa della mentalità dialettica), ma è anche un tempo che ha alle spalle i secoli del monachesimo, nella cui mens l’unica conversione a cui occorre prioritariamente applicarsi e rivolgere le proprie energie, scrutandone pazientemente i frutti, è quella di se stessi, non degli altri.
Tutta la dialettica di Tommaso d’Aquino – tanto per citare un raffinato intellettuale di allora – risulta calibrata così sulla lotta interiore, ed il confronto avviene non certo tra degli estranei che si scambiano slogan via autobus o via microfono, ma tra le voci contrastanti nell’animo di un’unica persona, che certo si confronta, ma di preferenza con compagni di viaggio autorevoli e fidati. Siamo sulla scorta della dialettica così come la concepisce ed indirizza – ad esempio -, Evagrio Pontico nell’Antirrhertikos, un vero e proprio trattato sulla «confutazione» interiore delle suggestioni che distolgono la persona da se stessa e dalla propria vocazione. L’esercizio, di conseguenza, non è intellettuale ma spirituale. La «conversione» è allora il frutto invocato, atteso e sperato per se stessi e si esprime in un modo sempre più intenso di avvertire la vita, di visitare le proprie memorie, di essere in relazione con gli altri, di traguardare un orizzonte di bellezza comune. Nulla a che vedere con l’espugnazione dell’altro dalle proprie convinzioni a colpi di slogan, arguzie o argomenti di gusto geometrico.
Mentre anche gli autobus dismessi da Ariane Sherine e Richard Dawkins fanno le loro corse spagnole e italiane si può, magari sommessamente, iniziare a chiedersi se l’approccio dialettico ai problemi maiuscoli, ma anche a quelli minuscoli che vi si collegano, non stia mostrando di essere arrivato al capolinea.