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Proponiamo un estratto dell’articolo di Giovanni Sale S.I. pubblicato su Civiltà Cattolica di settembre 2008

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La legislazione antisemita, in particolare quella sulla scuola, fu accolta dalla maggioranza degli italiani, in particolare dai cattolici, con vivo rincrescimento e a volte con rabbia;

furono molte le lettere inviate in Vaticano da privati o da gruppi di persone e associazioni (anche non israelitiche), che invitavano le autorità ecclesiastiche e, in particolare, il Papa a intervenire presso il Duce in difesa degli «sventurati ebrei».
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«Desideriamo che il mondo sappia — scrive a Pio XI un gruppo di fascisti e cattolici di Reggio Calabria — che non siamo dei servi di un tiranno, ma che serviamo un’idea, per il nome di Dio e della Patria. Chi crede o s’illude d’avere in noi dei ciechi strumenti di ogni sua aberrazione, è bene che sappia che noi abbiamo la fierezza di dire no, e di non avanzare oltre le barriere della nostra fede». La lettera collettiva è firmata: «I fascisti d’Italia e figli Vostri e della Chiesa cattolica» (4).

Il giorno successivo all’adozione del decreto-legge sulla scuola, il 6 settembre Pio XI pronunciò un memorabile discorso contro il razzismo e contro l’antisemitismo: era la prima volta che ciò accadeva in modo così esplicito e diretto. Purtroppo esso non fu divulgato in Italia — infatti il 5 agosto il ministro Alfieri aveva dato disposizione ai prefetti di vietare che i discorsi del Papa contro il razzismo fossero pubblicati da riviste e giornali cattolici — e ciò avvantaggiò molto la causa razzista e diede l’impressione che il Papa, per motivi politici, non prendesse posizione su una materia così grave. Gran parte degli intellettuali cattolici, tra cui anche Dossetti, ne ebbero notizia leggendo le riviste cattoliche di oltralpe (5). Il celebre discorso fu tenuto a Castel Gandolfo, dove il Papa si trovava da tempo, davanti a un gruppo di pellegrini belgi, molti dei quali lavoravano nell’ambito delle comunicazioni. Il testo integrale, pubblicato dalla "Documentation Catholique", fu stenografato da uno dei presenti, mentre il Papa parlava. Il quotidiano vaticano, "L’Osservatore Romano", pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, mentre la «cronaca contemporanea» della "Civiltà Cattolica" non ne fece menzione. Le parole del Papa sono riportate dalla rivista cattolica belga in modo abbastanza colorito: «A questo punto il Papa — è scritto — non riuscì a trattenere la sua emozione… ed è piangendo che egli citò i passi di Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo […]. L’antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L’antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare […]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto all’autodifesa e che può intraprendere le azioni necessarie per salvaguardare gli interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti» (6). Le parole di condanna dell’antisemitismo pronunciate con voce commossa dal Papa erano forti e chiare.

Su questa materia la Segreteria di Stato assunse un atteggiamento piuttosto prudente, pensando che in tal modo si potesse ottenere qualcosa di concreto a vantaggio degli ebrei, in particolare di quelli convertiti al cattolicesimo. Il p. P. Tacchi Venturi, fiduciario del Papa presso Mussolini, fu incaricato di trattare la delicata questione degli ebrei presso le autorità governative. Una Nota della Segreteria di Stato dell’8 settembre 1938 suggeriva al gesuita di attirare l’attenzione dell’autorità governativa soprattutto sugli ebrei battezzati e convertiti al cattolicesimo: «Non sarebbe equo — si chiedeva l’estensore — che, indipendentemente dall’origine, gli ebrei convertiti che hanno contratto in precedenza un matrimonio misto ai sensi del diritto canonico […] fossero considerati cattolici e non già sempre e comunque ebrei sol perché tali erano i loro genitori?». Vale a dire, si chiedeva al Governo fascista di utilizzare come criterio discriminatorio non il dato biologico-razziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza a una determinata fede religiosa, in questo caso quella giudaica. Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere. Compito dello storico è però quello di ricostruire, per quanto è possibile oggettivamente, la vicenda storica, cercando di comprendere la mentalità e la cultura dei soggetti interessati, senza apriorismi di carattere ideologico. Secondo la cultura cattolica del tempo, anche se non tutti erano d’accordo con tale principio, sembrava che compito della Chiesa fosse quello di proteggere innanzitutto i propri fedeli, senza però in questo venir meno al senso di giustizia e di carità dovuti a tutti gli esseri umani.

Alla luce di tale principio si capiscono meglio i successivi interventi dell’autorità ecclesiastica in questa materia. L’attività svolta dal p. Tacchi Venturi a favore degli ebrei non ebbe, come è noto, grande fortuna, anche perché Mussolini era fortemente determinato a portare avanti la sua politica razziale e, in questo settore, non voleva essere secondo all’alleato tedesco. In un’udienza del 9 settembre, cioè dopo i primi decreti-legge antiebraici, il Papa disse esplicitamente al gesuita di trasmettere a Mussolini il seguente messaggio: «Il Santo Padre come italiano si rattrista veramente di vedere dimenticata tutta una storia di buon senso italiano, per aprire la porta o la finestra a un’ondata di antisemitismo tedesco» (7). Due giorni prima, il 7 settembre, il p. Tacchi Venturi aveva comunicato al Duce che «il Santo Padre per notizie e informazioni purtroppo attendibili è molto preoccupato che questo aspetto o parvenza di antisemitismo che si dà alle disposizioni prese in Italia contro gli ebrei, non abbia a provocare da parte degli ebrei di tutto il mondo delle rappresaglie forse non insensibili all’Italia» (8).

A tali sollecitazioni del Papa, Mussolini rispose, anche se indirettamente, il 18 settembre a Trieste, dove ritornò a parlare del problema del razzismo. Egli riaffermò in modo perentorio che l’Italia non aveva deciso la politica razziale per «fare cosa gradita alla Germania» e che tale questione era stata così impostata dal fascismo già dalle origini. Disse poi, tentando di giustificare le recenti disposizioni ministeriali sugli ebrei, che «l’ebraismo mondiale è sempre stato un nemico irriducibile del fascismo» e preannunciò, per porre un freno alle reazioni negative contro i citati decreti-legge, l’emanazione di disposizioni benevole per gli ebrei di cittadinanza italiana, benemeriti verso la nazione. A molti, però, era parso che Mussolini nel suo discorso avesse voluto rispondere al Papa, facendo intendere che su tale materia egli non accettava consigli da nessuno. Il vescovo di Trieste, mons. A. Santin, durante la visita che il Duce fece alla cattedrale di San Giusto, chiese a Mussolini se nel discorso che aveva fatto era sua intenzione, come qualcuno aveva fatto intendere, attaccare, seppure indirettamente, il Papa. Egli, con sicurezza, rispose al prelato che in nessun modo era sua intenzione offendere il Papa, anche perché, disse: «Il Sommo Pontefice si occupava di razzismo in altro senso e quindi non vi era nessun contrasto [tra le due posizioni]». Mons. Santin raccontò la vicenda, spendendo parole di plauso nei confronti di Mussolini, in una lettera rassicurante indirizzata a Pio XI. Il Papa però, pur rallegrandosi della promessa fatta dal Duce di tener conto nella successiva legislazione antiebraica dei meriti patriottici ottenuti da cittadini ebrei, confidava che anche coloro che avessero ricevuto il battesimo e fossero così diventati figli della Chiesa venissero trattati alla stregua di coloro che eroicamente avevano combattuto per la patria. «Per queste considerazioni — è detto in una Nota vaticana — il Santo Padre confida che le norme per discriminare gli ebrei nello Stato italiano, non vengano applicate a quelli fra essi che ricevettero il battesimo» (9). Lo stesso, egli chiedeva, per gli ebrei stranieri battezzati.

Fatto sta che, a partire dalla pubblicazione del Manifesto della razza, i rapporti tra il Governo italiano e la Santa Sede, o meglio tra Mussolini e Pio XI — nonostante la firma di un «patto di pacificazione» (16 agosto 1938) — andarono gradatamente deteriorandosi, tanto che il Duce disse in privato che quel Papa rappresentava una rovina per l’Italia e per la Chiesa. La stampa internazionale, da parte sua, amplificò in modo caricaturale tale antagonismo, fino a ipotizzare un possibile abbandono della Città Eterna e dell’Italia da parte del Papa: «A seguito del recente conflitto di idee — scriveva alla Segreteria di Stato il Nunzio a Parigi, mons. V. Valeri — che si è manifestato tra le autorità del regime fascista italiano e la Santa Sede a proposito del razzismo, alcuni organi di stampa francese, la quale ha seguito largamente da vicino l’episodio, si sono spinti sino a prevedere nientemeno la possibilità futura di un esilio del Papato da Roma, e, più frequentemente, la nomina di un pontefice non italiano» (10). Tale fatto, riportato anche dal quotidiano cattolico parigino "La Croix", dà la misura della serietà del conflitto esistente tra il Governo fascista e la Santa Sede a motivo della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici.

Per leggere integralmente l’articolo, clicca su www.chiesa sito a cura di Sandro Magister

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