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Proponiamo la lettura della sintesi dell’Editoriale de "La Società" n.4/5

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Viviamo in una epoca di profonde trasformazioni, in una società frammentata dove i punti di riferimento tradizionali sono venuti meno, una società fatta più di individui che di persone, dove domina il relativismo sotto la spinta di una cultura decadente che si esprime nella povertà culturale dei mezzi di comunicazione sociale. Cosa fare? Da dove ricominciare?

Ricostruite le antiche rovine – ci esorta il profeta Isaia – rialzate gli antichi ruderi, restaurate le città desolate” (Is 61,1-2). Di fronte a questo invito, in alcuni casi ci viene spontaneo rispondere che ci conviene continuare a vivere in mezzo alle rovine e ai ruderi. È questa la più grande tentazione che si presenta oggi di fronte ai cristiani.
Il recente viaggio a Parigi di Benedetto XVI fornisce gli strumenti concettuali per vincere questa tentazione, che è soprattutto una tentazione di afasia culturale e di fuga dalle responsabilità sociali. Penso allo straordinario discorso rivolto dal Papa agli uomini di cultura francesi al Collegio dei Bernardini il 12 settembre 2008 in profonda continuità con l’altrettanto forte discorso di Ratisbona, svolto esattamente due anni prima.
Prendendo le mosse dal celebre libro del benedettino Jean Leclercq “Amore delle lettere e desiderio di Dio”, il Papa ha offerto una lezione di laicità aperta.
Come è noto da quando, con la legge di separazione tra Stato e Chiesa del 1905, in Francia è nata la laicitè, traducibile con “laicità chiusa” o “laicità negativa”, ne è passata di acqua sotto i ponti.
La laicità infatti può essere chiusa all’esperienza religiosa, indifferente all’esperienza religiosa o aperta all’esperienza religiosa. È noto che i due predecessori dell’attuale presidente della Repubblica francese, Giscard e Chirac, pur essendo entrambi cattolici, in ossequio al “dogma” della laicità chiusa, abbiano rifiutato il titolo onorifico di canonici della Basilica del Laterano che invece Sarkozy ha accolto preparando il terreno ad una rivoluzione culturale i cui effetti dobbiamo ancora valutare pienamente.
La laicità chiusa non è stata solo uno strumento di inibizione della funzione pubblica dell’esperienza dei cattolici in Europa. È stata anche una sorta di autocensura che una parte non indifferente dei cattolici impegnati nel sociale e nel politico si è imposta per non apparire medievali nella modernità.
Tutto il discorso di Papa Ratzinger agli intellettuali parigini è stato ispirato a una giustificazione razionale del beneficio che la ”differenza cristiana” porta nella storia.
Il “quaerere Deum”, nella confusione dei tempi dopo il crollo dell’Impero Romano, era per i monaci benedettini il cercare ciò che vale, il cercare il definitivo dietro le cose provvisorie.
E questo “desiderio di Dio” include – come ha affermato Benedetto XVI a Parigi – l’amore per le lettere, la biblioteca, l’erudizione, l’amore per la parola, l’armonia della musica e del canto, il rispetto della ragione, il senso non servile del lavoro che costituisce uno dei caratteri peculiari della cultura occidentale. L’affresco che il Papa ha compiuto a Parigi di fronte agli uomini di cultura è sintetizzabile nella frase finale della sua magistrale lezione: “una cultura meramente positivistica che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio sarebbe la capitolazione della ragione e il tracollo dell’umanesimo”.
Da Assisi in occasione del Seminario Nazionale di Retinopera sul tema “Bene comune, poverta’ emergenti, ricchezze negate” del 26-28 settembre 2008 sono venute alcune riflessioni nella linea del magistero del papa. Mons. Arrigo Miglio, Vescovo di Ivrea e Presidente della Commissione per i problemi sociali e il lavoro, ci ha ricordato che oggi si parla tanto di ingerenza inopportuna dei cattolici nella vita civile e politica, ma “se ci pensiamo, la vera ingerenza e’ Cristo, l’ingerenza di Dio nella storia. Occorre realizzare in Italia, ci ha detto Mons. Miglio, una presenza di cattolici che siano, ma soprattutto siano percepiti, come coloro che si fanno carico della dignità della persona, dei valori che sorreggono la vita e senza i quali muore la democrazia.
È il grande tema del rapporto tra pubblico e privato. Se un ecologista promuove l’ecologia naturale viene socialmente riconosciuto come un benefattore dell’interesse pubblico. Se un cattolico promuove l’ecologia umana viene spesso ritenuto portatore di un interesse privato-confessionale e di una posizione parziale.
Il sociologo Bonomi ci ha ricordato l’importanza di fare rete sul territorio sostenendo che i cattolici non possono più, come hanno fatto per oltre un secolo, “mettersi in mezzo” tra capitale e lavoro, cercando la composizione del conflitto nel senso della giustizia sociale, ma devono accettare la nuova frontiera che non sta più nella dialettica novecentesca tra capitale e lavoro ma nella dialettica tra flussi (di immigrati,di infrastrutture, di risorse finanziarie,etc) e territori. Non a caso i veri conflitti sociali nascono oggi dalla paura che i flussi generano nei territori. Basti pensare al razzismo che nasce dalla paura del diverso, ai movimento no-TAV nella Val di Susa, ai conflitti nati sui flussi di trattamento dei rifiuti urbani in Campania.
Giuseppe De Rita, Presidente del Censis ha esordito in modo provocatorio, affermando di non apprezzare “la riproposizione retorica della Dottrina Sociale”. Sono tre, secondo il sociologo, i fenomeni antropologici che ci interpellano e ci spingono a una nuova stagione formativa e a un uso innovativo e non retorico della DSC.
Il primo fenomeno è il “pluralismo senza verità” ossia la pretesa di affidare ai numeri in Parlamento o nelle piazze la verità. Il giurista Zagrebelsky sostiene che la Chiesa è fuori dal mondo moderno perché il numero (le maggioranze) gli dà torto. “Visto che quando si dovrà decidere sulla eutanasia scopriremo ancora che siamo minoranza”, riproporre valori non contrattabili, secondo la analisi di De Rita, “vuol dire continuare a perdere”. Bisogna dire, come cattolici, qualcosa di più. Il secondo fenomeno è la “secolarizzazione come neutralità”. La neutralità oggi vince. La secolarizzazione non e’ più anticlericalismo militante ma è diventata l’ideologia della neutralità, il vuoto. “Bisogna togliere i crocifissi dalle aule” affermano i sacerdoti della laicità neutrale. E i nostri figli crescono vuoti. Se non usciamo dal primato della neutralità perdiamo.”Il pericolo non è il conflitto antireligioso alla
Pannella – ha continuato De Rita – ma il primato della neutralità”.
Se non ci sono crocifissi, valori, libri che abbiamo letto insieme, vince il numero, secondo il Presidente del Censis, vince la neutralità. Il terzo fenomeno è il “primato della fisicità” ossia il primato della ambiguità, del corpo che può essere scambiato per maschile o femminile, del corpo che si può riprodurre in provetta, o che si può far cessare di soffrire con l’eutanasia. Secondo De Rita il primato della fisicità è il primato delle emozioni, il primato dell’esserci, di avere quella scarica di emozioni. Noi cattolici, se vogliamo creare qualcosa di nuovo in terra, dobbiamo interrogarci su questi tre fenomeni e elaborare risposte all’altezza delle sfide. Il Crocifisso viene da lontano e non può essere messo nel vuoto della neutralità. Pensiamo alle emozioni degli ebrei nell’Esodo. Dalle emozioni della paura, della fame e della non speranza, Mosè aiuta il popolo a elaborare, attraverso il cammino nel deserto, cioè una “esperienza educativa”, il sentimento di essere popolo di Dio. Nella lettera di Benedetto XVI alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione il papa scrive: “Educare non è mai stato facile e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori gli insegnanti i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa” confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita (…). Si parla inoltre di una frattura tra le generazioni, che
certamente esiste e pesa ma che è l’effetto, piuttosto che la causa della mancata trasmissione di certezze e di valori”.
Quest’ultima affermazione del papa è la chiave di volta per comprendere che dietro al presentismo che così bene ha descritto De Rita, dietro alla secolarizzazione come neutralità, c’è proprio l’incapacità di trasmettere certezze e valori. Sarebbe banale ridurre tutto alla fisiologica contestazione dei figli verso i padri. Il problema è un altro. È la rinuncia da parte degli adulti ad introdurre i giovani nella realtà che l’atmosfera e la mentalità contemporanea portano con sé.
Se si dubita della centralità e del valore della persona umana, del senso della vita, del primato della verità, come si fa a trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di solido? Se i padri sono assenti e gli educatori rinunciatari di fronte alla passività dei giovani la frattura educativa tra le generazioni diventa evidente.
Non è solo un problema della scuola o dell’educazione, è una crisi dell’umano. Lo scetticismo di tanti adulti sul senso della vita si sposa con la passività e il disinteresse di tanti giovani. Il problema dell’educazione non è in primo luogo un problema dei giovani ma è un problema degli adulti. Educare infatti è introdurre una persona nella realtà. Se non trasmettiamo ai giovani il significato del vivere, questi si disinteresseranno del reale. La proposta del significato della vita la si comunica attraverso l’incontro della persona dell’educatore. Quello di cui hanno bisogno i figli è di padri che li introducano al senso della realtà.
Di fronte allo schiacciamento sul presente la Chiesa è maestra di passato e di futuro, di tradizione e di speranza. In continuità con il Concilio Vaticano II, ci sono chieste tre scelte di fondo:
– il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa
– la testimonianza personale e comunitaria come forma dell’esistenza cristiana
– una formazione che converge sull’unità della persona.
 
Formare alla coscienza e alla responsabilità sociale attraverso la Dottrina sociale della Chiesa significa inverare la profezia sociale del Vangelo radicata nei quatto principi del primato della persona, del bene comune, della sussidiarietà e della solidarietà. La Dottrina sociale della Chiesa costituisce oggi (se interpretata e aggiornata secondo le acute indicazioni di De Rita) un’ideale crocevia, un’agorà, un punto di incontro e confronto non solo per i cristiani, ma per quanti credono nel bene comune e lo perseguono.
Non si tratta solo di apprendere ed insegnare il pensiero della Chiesa, quanto di educare a un metodo di pensiero, ad un atteggiamento di vita, ad una capacità di “discernimento sociale”, ad un esercizio responsabile della cittadinanza. La Dottrina sociale della Chiesa non è un pensiero che esclude ma che apre agli altri, guida e sostiene i cristiani e le comunità nella ricerca del bene comune, può costituire invece la base di una alleanza con tutti gli uomini di buona volontà (come è avvenuto ai cattolici che hanno scritto la Costituzione ispirandosi proprio a questi principi e trovando importanti convergenze con chi apparteneva a altre tradizioni culturali). Oggi c’è bisogno di una alleanza sulla emergenza educativa, di un incontro tra laici cattolici e laici diversamente credenti
che arrivi ad un progetto educativo condiviso. L’educazione richiede l’opera dalla catena delle generazioni. Questa catena oggi si è interrotta e va ricostruita. L’educazione domanda tradizione. La tradizione garantisce la genealogia della persona, non solo la sua biologia. L’esperienza paternità-figliolanza è la condizione per suscitare civiltà.
La formazione della coscienza sociale può costituire il canale di una incarnazione non retorica della Dottrina Sociale della Chiesa.
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