Possiamo ad esempio consultare utilmente il volume che riporta gli atti del convegno di Scholé 2006 sul tema “Convivenza civile e nuovo impegno pedagogico” (La Scuola, Brescia 2007), oppure studi di notevole interesse come quello di Fabrizio Pizzi, “Educare al bene comune. Linee di pedagogia interculturale” (Vita e Pensiero, Milano 2006), ma una via maestra per educare nel nostro tempo con il coraggio della profezia ci sembra quella tracciata dal Patriarca di Venezia, Angelo Scola, che da alcuni anni insiste sul meticciato di civiltà.
Riteniamo che in vista dell’Anno europeo del dialogo interculturale e alla luce della seconda enciclica di Benedetto XVI sul tema della speranza (Spe salvi), sia opportuno richiamarla per poterla valorizzare in attesa che venga anche tradotta coraggiosamente in una prospettiva di pedagogia sociale.
Scriveva il cardinale Scola già alcuni anni fa: «Dobbiamo costruire una nuova “civitas” che accolga l’intera umanità sotto un unico governo mondiale. Mescolanza sarà allora l’unità dei diversi, senza relativismi né sincretismi ma fondata su un concetto che ancora spaventa: la comune natura di tutti gli uomini.
Ma forse – continuava il cardinale – il più eclatante esempio di questo meticciato di civiltà nato sulla base della comune natura umana, senza relativismi e sincretismi, è la stessa Chiesa apostolica magistralmente descritta dall’affermazione di Paolo: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28).
A questa forte dichiarazione dell’apostolo fece eco Paolo VI nel 1975 con la memorabile descrizione della Chiesa come “realtà etnica sui generis”» (“Avvenire”, 18 luglio 2004).
Recentemente è apparso ancora un suo breve testo intitolato Dio al tempo della società meticcia, in cui vengono dichiarate, in modo inequivocabile, le ragioni della sua scelta per il meticciamento come «la strada che si disegna oggi davanti a noi. Una strada forse impensata, certo impervia, ma che già siamo avviati a percorrere» (“La Repubblica”, 23 novembre 2007).
E chiarisce: «La scelta della categoria di meticciato non è nata in me dallo studio della letteratura in proposito, ma piuttosto dai miei viaggi in Messico e, in particolare, dalla considerazione del carattere fortemente meticcio del popolo messicano. Il ricorso a questa categoria nasceva anche dalla insoddisfazione che l’impiego di termini tradizionali come identità, dialogo, integrazione, multiculturalità continuava a produrre in me di fronte alla poliformità del processo.
“Meticciato di civiltà e di culture” pare a me, nonostante tutti i rischi a cui è esposta, una categoria da privilegiare. A cui, in un qualche modo, subordinare le altre (integrazione, identità, dialogo, ecc.) e non viceversa. La ragione di questa mia preferenza viene dal carattere estremamente realistico, per così dire sanguigno, che il termine meticciato esprime».
Le conseguenze pratiche di questa scelta ideale sono apertamente dichiarate: «A nulla vale dunque attardarsi sulle illusorie trincee di un’identità, intesa come chiusura, dimenticando che il pericolo per l’Occidente risiede piuttosto nel diventare sempre di più, come diceva genialmente il poeta Eliot, degli “uomini impagliati”».
Non sarà possibile alcuna convivenza tra le culture e le religioni se, nello stesso tempo, non prepariamo il terreno alla com-presenza dei simboli. Non c’è infatti né cultura, né religione senza simboli. Per questo ci chiediamo: che cosa dobbiamo fare per riuscire a vivere insieme nella diversità ed evitare la deriva di uno scontro di civiltà? In futuro ne siamo certi, l’educazione deve attrezzarsi per accompagnare e orientare il processo di meticciamento delle differenze. Un processo che è già in corso e che oggi si caratterizza per la sua fase iniziale: la compresenza dei segni culturali e religiosi differenti.
L’approccio ideologico ai simboli non ci aiuta. Purtroppo sia il velo nelle scuole francesi, sia il crocifisso nelle scuole italiane sono diventate questioni ideologiche.
Questa strada va perseguita nella consapevolezza che essa inciderà sul tema dell’etica pubblica e sul modello di integrazione sociale che verrà costruito in Italia e che dovrebbe ispirarsi all’interculturalità, ossia ad un ideale politico-educativo del tutto impopolare e in controtendenza.
Raimon Panikkar, il grande pensatore-ponte fra Oriente e Occidente, afferma che «l’apertura all’interculturalità è veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in discussione. Ci dice che la nostra visione del mondo e, quindi, il nostro stesso mondo, non è l’unico».