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La seconda Enciclica di Benedetto XVI è un segno di contraddizione e suscita, in un mondo dominato dal pensiero unico relativista, reazioni prevedibili.

“El Pais” la confina nell’arsenale dell’ “integrismo preconciliare” mentre “Le Monde” non riesce a vedervi che “l’ennesimo attacco di un Papa al progresso, alla scienza, all’ateismo” e sul “Manifesto”, il filosofo del “pensiero debole” Vattimo lamenta le mancate citazioni del “Principio speranza” di Ernst Bloch e della “Teologia della speranza” di Moltmann, mentre Politi su “Repubblica” lamenta il mancato confronto con le teorie della speranza delle altre religioni.
 
Colpisce in queste reazioni la pretesa di obbligare Benedetto XVI ad accettare l’orizzonte ermeneutico del relativismo, ma anche l’incapacità a cogliere la profondità di pensiero e di analisi di un Papa-filosofo.
 
Dei tanti aspetti meritevoli di approfondimento qui interessa esaminare il tema della dimensione sociale della speranza.
 
Al n. 13 dell’Enciclica viene citata l’introduzione dell’opera fondamentale del grande teologo francese Henri de Lubac, Catholicisme. Aspect sociaux du dogme, per confutare la critica della modernità nei confronti della speranza cristiana, accusata di puro individualismo. E’ la famosa idea della speranza cristiana come “oppio dei popoli” e del cristiano che abbandona il mondo alla sua miseria rifugiandosi in una salvezza privata.
 
La citazione che compare al n. 13 merita di essere riportata per intero: “Ho trovato la gioia? No… Ho trovato la mia gioia. E ciò è una cosa terribilmente diversa… La gioia di Gesù può essere individuale. Può apparire ad una sola persona ed essa è salva. E’ nella pace…, per ora e per sempre, ma lei sola. Questa solitudine nella gioia non la turba. Al contrario: lei è, appunto, l’eletta! Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano”.
 
Si tratta di un testo di Jean Giono, Les vraies richesses, uscito nel 1936 e che De Lubac nel 1938 pone come incipit della sua opera più nota, che intende approfondire la dimensione sociale del cristianesimo. Vale la pena di offrire ai lettori anche il seguito della citazione che nel finale smentisce il testo precedente e così prosegue: “Quando la miseria mi assedia, non posso tranquillizzarmi mormorandomi d’essere un genio. La mia gioia durerà solo se è la gioia di tutti. Non voglio passare attraverso le battaglie con una rosa in mano”. In questa seconda parte della citazione penso sia ulteriormente rafforzato il contenuto di fondo di tutta l’Enciclica che è un inno alla speranza per tutti. Una speranza che viene depurata dalle illusorie deformazioni delle ideologie.
 
E infatti il n. 14 della Spe Salvi comincia affermando “rispetto a ciò de Lubac, sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità, ha potuto mostrare che la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria”.
 
Cattolicismo di de Lubac risponde proprio ai rimproveri di cui era ed è oggetto il cristianesimo a causa della presunta dimenticanza della dimensione sociale della speranza e del disinteresse apparente per l’avvenire terreno e per la solidarietà umana. Anche oggi si tende a contrapporre il cristiano che si ritira dalla città degli uomini, unicamente preoccupato della sua salvezza, che è faccenda fra lui e Dio e l’uomo moderno che accetta il mondo e le sue leggi e alla Provvidenza e alla speranza in Dio sostituisce la speranza nella scienza e nel progresso. Rispetto al testo del gesuita francese uscito alla fine degli anni Trenta, assistiamo a una accelerazione del processo di sostituzione della secolarizzazione della speranza.
 
De Lubac, nell’opera citata da Papa Ratzinger, spiega in modo limpido che in fondo al Vangelo c’è la visione dell’unità della comunità umana e che il cattolicesimo è essenzialmente sociale, nel senso più profondo della parola, non solo in virtù della dottrina sociale della Chiesa o per le opere della carità, ma nella sua essenza dogmatica, nel suo centro più misterioso, nella speranza che suscita.
 
Ai tanti detrattori e critici distratti di questa Enciclica vale la pena di segnalare l’acutezza con cui Benedetto XVI fa propria la critica di Adorno all’idea di progresso ricordando al n. 22 il drastico giudizio del filosofo della scuola di Francoforte; “Il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba”.
 
L’Enciclica costituisce una sfida intellettuale anche per i cattolici, invitati a compiere “una autocritica del cristianesimo moderno che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici” (n. 22).
 
Il messaggio cristiano, come ci ricorda la Spe Salvi al n. 2 non è solo informativo, ma “performativo” (converte i cuori e trasforma la storia). Di conseguenza questa invocata autocritica, se svolta in modo intellettualmente onesto (fino alla constatazione della fine della spinta propulsiva del cattolicesimo democratico e fino alla critica della “secolarizzazione interna”), può essere feconda di nuove stagioni di creatività culturale e di impegno sociale per i cattolici e per il bene comune.
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