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di Daniele Diviso
rnLa trasformazione di qualità e quantità nelle migrazioni internazionali e la progressiva riformulazione del concetto stesso di migrazione rappresentano alcuni degli esiti del processo di globalizzazione in atto, con particolare riferimento all’impetuoso ritmo di cambiamento occorso durante l’ultimo decennio. La ridefinizione del nesso tra sovranità e territorio è uno degli aspetti correlati a questo processo; per ora tuttavia, tale ridefinizione investe principalmente la riflessione teorica e soltanto in misura più contenuta le decisioni concretamente adottate a livello politico-istituzionale

La globalizzazione dell’economia e della finanza procede infatti a un ritmo incalzante, e non conosce davvero frontiere; invece, la definizione dei principi normativi attraverso cui riconoscere, sul piano legale, la presenza di migranti sul territorio nazionale e – in misura ancora più incisiva – i criteri adottati per consentire la “naturalizzazione” dei cittadini stranieri costituiscono tuttora una prerogativa gelosamente custodita ed efficacemente difesa dai singoli Stati. Nell’ambito della stessa Unione Europea, ad esempio, numerose e significative sono le differenze tra Stato e Stato nell’approccio culturale e nelle disposizioni normative concernenti l’acquisizione della cittadinanza.

Allo stato attuale, la normativa italiana in materia di cittadinanza – regolata tramite la legge n. 91 del 1992 e informata al principio dello ius sanguinis – è tra le più restrittive nell’ambito dell’Unione Europea, e certamente la più restrittiva tra i Paesi della UE esposti ad ingenti flussi migratori. Nel nostro ordinamento, l’accesso alla naturalizzazione giuridica da parte di un cittadino straniero – vale a dire l’acquisizione della cittadinanza per lungoresidenza e non per matrimonio – è ammesso dopo un periodo di residenza di dieci anni, i quali divengono sovente dodici o tredici nelle more dei procedimenti burocratici. Sia in Francia sia nel Regno Unito sono invece richiesti cinque anni. In Germania – Paese tradizionalmente legato, non diversamente dell’Italia, a un’idea di cittadinanza improntata allo ius sanguinis – la normativa introdotta nel 2006 ha abbassato a otto anni il periodo di tempo richiesto per richiedere la naturalizzazione e ha inoltre notevolmente semplificato le procedure per l’acquisizione della cittadinanza da parte dei minori stranieri nati e/o residenti nella Bundesrepublik. In Spagna – dove la presenza di immigrati è, in termini quantitativi, analoga a quella italiana – al cittadino straniero è richiesto, come nel nostro Paese, un soggiorno continuativo di dieci anni per poter ottenere la naturalizzazione; tuttavia, nella prassi e anche de iure (in riferimento, ancora una volta, ai minori stranieri) gli ostacoli frapposti all’acquisizione della cittadinanza sono inferiori rispetto a quelli che ricorrono, di norma, in Italia. A questo proposito occorre rilevare che nell’ordinamento italiano il possesso dei requisiti idonei a richiedere la cittadinanza non implica che questa si configuri giuridicamente, per il richiedente, come un diritto; l’acquisizione della cittadinanza rimane infatti una concessione, con i caratteri di arbitrarietà e insindacabilità che ciò implica. Alcune cifre appaiono indicative del nostro ritardo in questo ambito: il numero complessivo delle cittadinanze accordate nel 2010 a cittadini stranieri residenti nel nostro Paese ascende a 40.000 (delle quali, oltre la metà – 21.600 – per matrimonio e la restante parte per lungoresidenza); si tratta della metà e di un quinto delle acquisizioni di cittadinanza registratesi rispettivamente in Spagna (80.000), e in Gran Bretagna (204.000) nel medesimo anno. In una prospettiva più ampia si stima tuttavia che ci siano ormai oltre 600.000 italiani “per acquisizione”: un numero significativo, seppure inferiore ai riconoscimenti di cittadinanza che si registrano in un solo anno nella UE (776.000 nel 2010).

La legge 91 del 1992, architrave della normativa attualmente in vigore in Italia in materia di cittadinanza, venne concepita in una fase nella quale i fenomeni migratori verso il nostro Paese erano già divenuti una realtà di significative proporzioni. Tale legge si caratterizzò tuttavia per un’impostazione prevalentemente ‘difensiva’ anziché propositiva: ne è testimonianza il raddoppio (da 5 a 10 anni) del periodo di soggiorno richiesto per accedere alla cittadinanza; si trattava di una previsione legislativa adottata con il chiaro intento di inibire l’emergere, in futuro, di un numero “eccessivo” di domande di naturalizzazione da parte dei nuovi immigrati. Nel contempo, la 91/1992 mantenne sostanzialmente invariata la ratio sottostante alla normativa precedente (che risaliva al 1912), la quale era rigorosamente basata sullo ius sanguinis, e dunque su un’idea di Italia quale “comunità di discendenza” fondata su vincoli di sangue e non quale “comunità territoriale” inclusiva delle persone di origine straniera stabilmente insediate nel territorio nazionale. Una concezione, quella della “comunità di discendenza”, probabilmente giustificata e plausibile nei decenni in cui l’Italia era Paese di emigrazione di massa e non costituiva una destinazione importante delle migrazioni internazionali; una concezione, tuttavia, inadeguata e antiquata nell’Italia odierna.

A pagare il prezzo più alto per questa inadeguatezza sono in primo luogo i cosiddetti “immigrati di seconda generazione”, ossia i figli di genitori immigrati: oltre 600.000 tra bambini, ragazzi e giovani adulti, nati e/o cresciuti nel nostro Paese. Ha senso chiamarli immigrati, seppure “di seconda generazione”? E’ interessante rilevare, a questo proposito, che in media oltre 4 su 10 tra i bambini “immigrati” iscritti alle scuole dell’obbligo nell’anno scolastico 2010/2011 risultano essere nati in Italia. Italiani de facto, dunque, sebbene non de iure. Il mancato riconoscimento giuridico quali (futuri) cittadini non ha implicazioni marginali per i figli di genitori immigrati, ma pone in discussione la loro stessa collocazione nel tessuto della società italiana, contribuendo a produrre o rafforzare la percezione di una non completa integrazione, quando non di un estraneità, nei riguardi del contesto in cui si cresce e si socializza.

Allo state attuale, chi nasce in Italia da genitori stranieri non ha facoltà di richiedere la cittadinanza italiana fino al raggiungimento della maggiore età; le previsioni legislative indicano un range temporale ristretto – tra i 18 e i 19 anni – per avvalersi di questa possibilità. Più irta di difficoltà è la strada verso la naturalizzazione per coloro i quali sono cresciuti in Italia senza esservi nati. Per numerosi tra questi, al compimento dei 18 anni, dinanzi all’assenza di requisiti per richiedere un permesso di soggiorno per motivi di studio o lavoro, si prospetta (non una possibilità remota né un’ipotesi di accademia) l’espulsione verso un Paese “di origine” di cui sovente non conoscono la lingua, e in cui talvolta non sono mai stati, ma di cui nondimeno sono ufficialmente cittadini.

La rilevanza della questione “seconde generazioni” e l’urgenza di una legge sulla cittadinanza più equa ed avanzata rispetto a quella attuale è stata sollevata in più circostanze dal Presidente Napolitano. Recependo alcune delle sensibilità emerse sul tema, nel 2009 venne proposto il disegno di legge Granata-Sarubbi, arenatosi nel corso del proprio iter parlamentare. Tale proposta imprimeva una significativa rottura rispetto all’impostazione normativa vigente sulla cittadinanza, avvalendosi a tale scopo di un sostegno parlamentare trasversale agli schieramenti di centrodestra e centrosinistra. Nel momento presente, tuttavia, il dibattito politico sulle seconde generazioni sembra essere in una fase di stallo, e modesto appare l’interesse nell’arco parlamentare a proporre in tempi ragionevoli un cambiamento dell’attuale normativa sulla cittadinanza. Le ragioni di ciò non sono incomprensibili e riportano anche al problema di una società, quella italiana, che appare ingessata e che sembra aver perso molto del suo dinamismo sociale e della sua capacità di disegnare un futuro sostenibile per le nuove generazioni. Per le élites politiche, d’altra parte, puntare sul sostegno delle seconde generazioni appare un investimento incerto, volatile; si tratta infatti di una categoria d’importanza numerica emergente, ma socialmente ed economicamente non certo egemone. Esistono interessi più consolidati e più sicure fonti di consenso.

Nel confronto sociale e politico che ha luogo nel nostro Paese emerge frequentemente – perlopiù sottotraccia – la divaricazione esistente tra una generazione più anziana maggiormente ‘tutelata’ e una più giovane dotata di minore potere economico, sociale (e, non da ultimo numerico), la quale può apparire non soltanto estromessa da una efficace negoziazione per migliorare le proprie posizioni, ma anche parzialmente priva(ta) degli strumenti per assicurarsi una progettualità per l’avvenire. Questi problemi si ripropongono in forma aggravata nel caso degli immigrati residenti in Italia, ossia di una popolazione generalmente giovane (l’età media è di 32 anni, contro i 43 della popolazione italiana “autoctona”) e dotata di reti di protezione – formali e informali, familiari e giuridiche – generalmente più vulnerabili rispetto a quelle di cui dispongono i giovani italiani. Questioni per molti versi analoghe si ripresentano con forza nel caso specifico delle seconde generazioni, una categoria ancora relativamente “invisibile” ma in prospettiva levatrice di significativi mutamenti nel tessuto sociale del Paese e meritevole di un’attenzione ben superiore rispetto a quella ad essa effettivamente accordata. La battaglia per assicurare adeguata visibilità alla questione dei “nuovi italiani” richiede trasversalità: una trasversalità intesa non soltanto sotto il profilo prettamente politico-parlamentare, sebbene questa possa facilitare una risoluzione della questione dello status giuridico delle seconde generazioni. Grande rilevo assumerà, in prospettiva, la capacità dei giovani di seconda generazione di “fare rete” – attraverso il loro emergente e già articolato universo associativo – acquisendo crescente massa critica e stimolando, anche mediante il coinvolgimento di altri soggetti sociali e realtà associative, una maggiore consapevolezza della società italiana nei loro riguardi.

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