Il giudice che a Milano ha riconosciuto un’aggravante – come procurato aborto – a colui che ha ucciso una donna incinta, Veronica, e il procuratore generale di Venezia che ha presentato appello con motivazioni analoghe per il delitto di Jennifer, hanno dato spazio a quella evidenza. Una donna incinta è una donna che ha un’altra vita con sé.
Uccidere una donna incinta non è – se così terribilmente è possibile parlare, ma così si deve, quando la vita chiede alla ragione e al cuore, supplica d’esser riconosciuta, e rispettata – insomma, uccidere una donna incinta non è come uccidere una donna che non lo è. C’è ‘qualcosa’ in più che entra in gioco. C’è qualcun altro a cui viene fatto un torto. Il torto immenso di portar via la vita. In un omicidio di una donna incinta accade qualcosa di doppiamente orrendo. Come accade per il dolore, per la pena che proviamo quando ci raggiungono notizie così dure, d’una donna che muore con il bambino dentro di lei. E allora si ha una pena aumentata, se così si può dire, moltiplicata. Più infinita di infinita, se avessero senso le parole che riusciamo a dire. Ma è così, è evidente, è buon senso, è misura larga della vita. E se gli uomini e le donne di questa Italia fossero ancora liberi di pensare, e di sentire, vedrebbero che la giustizia disponendo queste sentenze, non fa che seguire una evidenza. È infatti evidente e anche naturale che il diritto, nel suo esercizio di sanzionare le colpe, riconosca che se la morte raggiunge la madre e anche il figlio che è in lei sia più dura la pena. Poiché così lo chiamava la povera madre: mio figlio, il figlio che sto aspettando. Non ‘il figlio che non c’è’, ma ‘che sto aspettando’, che c’è e sta arrivando. E così dicevano le sue amiche, e così i parenti. E dunque è naturale, è evidente quel che, se pur ancora timidamente, alcuni giudici stanno ammettendo. Sarà compito dei Signori della giustizia trovare le parole, trovare le formule che riescano a portare questa evidenza che di fronte a certi fatti ci fa restare senza parole, e ci fa sentire vuote le formule, le frasi fatte… Ora che certe sentenze, per così dire, si sono accorte di lui, del figlio, oltre che di lei, della povera madre, la prima ad esserne felice nel cielo delle madri sarà lei. E poi ne sono convinti i liberi di pensare e di sentire. Coloro che non si perdono in strani e sinistri distinguo. Perché sulla scena del delitto c’era il demente assassino, e c’era lei, sì, ma lei sapeva benissimo, e anche l’assassino a volte sapeva benissimo che c’era anche lui, il figlio. E non è giusto dimenticarlo. Non sarebbe giustizia fare finta di niente. Non sarebbe né materno né giusto. Non sarebbe civile. Sappiamo che in Italia, su tanti argomenti, capita che azioni e decisioni di singoli magistrati hanno teso a colpire l’evidenza. A volte circumnavigando le norme e i dettati costituzionali. A volte forzando di proposito o creando nodi interpretativi. Può capitare, laddove si tocchino vicende delicate, difficilmente afferrabili con definizioni certe. Specie in questo tempo dove febbrili e affascinanti sono le ricerche e le tensioni intorno all’inizio e alla fine della vita. Ma in casi come questi, dove l’evidenza è disponibile, e occorre solo esser liberi ancora di pensare e di sentire, allora il compito del giudice che dispone le sentenze è di prendere atto, di cercare quali leggi, se ci sono o se creare si devono, siano più adeguate a riconoscere i fatti. E invece di una forzatura per contrastare l’evidenza, si sono fatti dei passi per riconoscerla.