La Cassazione (sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008) afferma ora che il dissenso alla cura deve essere attuale ed espresso dal paziente in modo inequivoco ed informato. Si tratta di un orientamento contrapposto a quello della Cassazione dell’ottobre 2007 sul caso Englaro, che aveva legittimato la possibilità di un dissenso al trattamento anticipato nel tempo rispetto al verificarsi della patologia e addirittura ricavato da testimonianze e presunzioni. Nella sentenza di pochi giorni fa, i giudici supremi, in armonia con le decisioni precedenti al caso Englaro, ritengono che non basta un generico dissenso ad un trattamento espresso in condizioni di piena salute, ma occorre riaffermarlo puntualmente nella situazione specifica di pericolo di vita.
Limitatamente al caso in cui il paziente sia “portatore di forti convinzioni etico-religiose”, la sentenza ritiene che esista la possibilità di trasporre la manifestazione di dissenso in una “articolata, puntuale, espressa dichiarazione” da recare con sé, oppure delegata ad un altro soggetto indicato quale rappresentante ad acta, che in tale veste avrebbe il potere di esprimersi all’esito dell’informazione da parte dei medici, nell’eventualità di uno stato di incoscienza del paziente.
Tale eccezione alla necessità di un dissenso espresso personalmente viene ricondotta dai giudici al valore gerarchicamente sovraordinato della libertà di coscienza, che si estrinseca nelle convinzioni etico-religiose e non “ideologiche” del paziente. Certamente si tratta di un assunto problematico per la possibile ambiguità della effettiva natura di tali convinzioni, la cui assolutezza andrebbe identificata in concreto. La Cassazione n. 23676, infatti, afferma che la validità di un consenso preventivo ad un trattamento sanitario è esclusa in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, e, d’altro canto, l’efficacia di uno speculare dissenso ‘ex ante’, privo di qualsiasi informazione medico terapeutica “deve ritenersi altrettanto impredicabile sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente”. Principi che per la loro assolutezza appaiono difficilmente conciliabili con la previsione che quando invece si è portatori di una certa “convinzione etico-religiosa”, sia sufficiente un’astratta immedesimazione nella situazione a priori rifiutata, descrivendo in uno scritto o delegando ad un terzo il comportamento da tenersi in concreto.
Si tratta comunque di una situazione ben diversa dal caso del tutore della vicenda Englaro. La decisione relativa al caso del testimone di Geova si riferisce, infatti, alla necessità che al rifiuto, nell’imminenza dell’intervento, si accompagni un’ indicazione esplicita circa il rappresentante, mentre nel caso Englaro il rifiuto, in condizioni di piena salute, e ricavato da presunzioni e testimonianze, è attuato da un rappresentante-tutore nominato dai giudici.
Ora questa decisione pur contrastante con il caso Englaro, da un punto di vista giudiziario, non può però incidervi, in quanto si riferisce ad un’altra vicenda. Dunque per il caso Englaro rimane intatta l’impostazione data dai giudici del caso, che è riassumibile nell’avere introdotto per sentenza la figura del testamento biologico presunto, che opera come esimente del reato di omicidio.
Certamente però la sentenza del caso del testimone di Geova apre un conflitto di orientamento con il caso Englaro e si ricolloca nel solco dei precedenti orientamenti della Cassazione. Con la conseguenza davvero drammatica che ci sarebbe davvero di che riflettere se il decreto di sospensione del sostentamento della Englaro della Corte di Appello di Milano fosse attuato in forza di un orientamento giurisprudenziale del tutto minoritario e solitario, trattandosi di una questione relativa alla vita e alla morte di un essere umano.