Le nuove tecnologie, e in particolare i social network come Facebook, rappresentano una grande opportunità di relazione. Benedetto XVI nel presentare le linee guida della Giornata mondiale della comunicazione sociale (5 giugno 2011) mette però in guardia i giovani dall’eventualità di “rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo”. Per Papa Ratzinger il sempre maggiore coinvolgimento delle persone e dei giovani in particolare, nell’arena digitale, permette alle persone di incontrarsi oltre i confini della propria cultura e spazio-temporali, ma comporta anche una presa di coscienza delle possibili conseguenze, dei possibili rischi.

Il social network, afferma Benedetto XVI, “conduce a stabilire nuove forme di relazione interpersonale, influisce sulla percezione di sé e pone quindi, inevitabilmente, la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche dell’autenticità del proprio essere. La presenza in questi spazi virtuali può essere il segno di una ricerca autentica di incontro personale con l’altro se si fa attenzione a evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale. Nella ricerca di condivisione, di “amicizie”, ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio profilo pubblico”.
L’invito del Papa è quindi a vigilare affinché il virtuale non prenda il sopravvento sul reale e, soprattutto, sulla necessità per l’uomo contemporaneo di alimentare rapporti umani e coltivare relazioni interpersonali profonde, autentiche e durature. Il contatto virtuale non può e non deve sostituire il contatto “caldo” e diretto di una sincera e autentica relazione interpersonale.
Sottovalutare il valore della relazione e dello scambio, tradire la fiducia degli altri costruendosi un’immagine non vera sul web, hanno l’effetto di banalizzare la comunicazione e di tradirne i contenuti etici.
Partendo dal documento sulla Giornata mondiale della comunicazione sociale, proviamo ad analizzare i tradizionali comportamenti comunicativi delle persone e delle organizzazioni, anche alla luce del forte richiamo etico del Papa all’autenticità nella relazione con l’altro.

Nella società occidentale, il problema prioritario per le persone non è più legato alla sopravvivenza ma alla qualità della vita, che dipende, in larga misura, dalla qualità delle relazioni che l’uomo riesce a costruire con gli altri. Avere buone relazioni dipende dalla nostra capacità di comunicare con consapevolezza. Comunicare con gli altri ma anche con noi stessi poiché le due dimensioni sono strettamente legate. Paul Watzlawich, rilevando che non è possibile per qualsiasi individuo non avere un comportamento, assimilando il comportamento ad una forma di comunicazione ne deduce che è “impossibile non comunicare”. Per cui, in linea con questa impostazione, è definibile come comunicazione “qualsiasi evento, oggetto, comportamento che modifica il valore di probabilità del comportamento futuro di un organismo”. Quindi il comportamento è comunicazione. Comunicazione è tutto ciò che, esplicitamente o implicitamente, incide – modificandoli o rinforzandoli – sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle persone, siano essi attori trasmittenti o riceventi nel processo comunicativo.
Tutte le forme attraverso cui una persona si pone in relazione con l’ambiente esterno fanno riferimento alla comunicazione.
Il ragionamento si può estendere anche ai gruppi, alle organizzazioni, alle imprese. Possiamo quindi affermare che qualsiasi azione aziendale, e quindi qualsiasi comunicazione, ha un impatto sulla sua reputazione, ovvero sulle percezioni e sulle opinioni (passate e presenti) dei suoi pubblici e quindi sulle loro aspettative.
Ma cosa succede quando l’immagine che trasmettiamo agli altri (l’identità sociale) non è coerente con la nostra realtà interiore (l’identità personale)? Cosa succede quando mettiamo una maschera e quello che più conta è l’apparire e non l’essere? Cosa succede quando le organizzazioni trasmettono un’immagine che, nel momento del contatto con i diversi pubblici, non coincide con quanto dichiarato o evidenzia una certo grado di ambiguità?
Quando la nostra immagine sociale – voluta, costruita e perseguita in contrapposizione con la nostra personalità – prende il sopravvento sulla nostra reale identità, perdiamo il contatto profondo con il nostro sé e quindi con gli altri. Perdiamo, in altre parole, la nostra autenticità/identità personale. “Nessuno può a lungo avere una faccia per se stesso e un’altra per la folla – afferma Nathaniel Hawthorne – senza rischiare di non sapere più quale sia quella vera”.
Se trasferiamo il ragionamento dalle “persone” alle “organizzazioni” la conseguenza è che se i pubblici percepiscono questo “tradimento” – e si tratta di un rischio alto, quasi inevitabile, nell’era di internet – lo vivranno come una manovra manipolatoria, propagandistica e poco responsabile.
La costruzione del sé dovrebbe sempre partire – come afferma Romano Guardini – “procedendo dall’interno verso l’esterno”, senza aderire acriticamente a un modello, ad una visione, a un ideale, spesso estraneo alla vera identità. Quando si moltiplica, con superficiali operazioni di immagine, il proprio sé, quando vi è, in altre parole, una scissione dell’io reale (nel caso delle persone) e dell’identità (nel caso delle imprese) da quello rappresentato, si può determinare una spirale di dipendenza dalla propria raffigurazione che porta prima all’inganno di sé e poi degli altri. Costruire o costruirsi un’immagine non coerente con la propria identità è quindi un’operazione ad alto rischio nel rapporto con gli altri e con i diversi pubblici, sia per i singoli che per le organizzazioni. In ogni contesto relazionale infatti, arriva sempre il momento della verità.
Se nel caso delle persone tale l’ambiguità può portare all’autoinganno, al disagio e alle difficoltà di comunicazione/relazione, nel caso delle organizzazioni la scarsa consapevolezza dell’importanza di questo “momento della verità” può far perdere valore all’impresa stessa. La comunicazione, la qualità delle relazioni e la reputazione sono infatti unanimemente considerate parte fondamentale – anche in termini economici e di valutazione – del valore di un’azienda/organizzazione.
E’ quindi necessario lavorare con serietà, impegno e costanza sulla mission, sulla vision e sui valori guida delle organizzazioni, inviando messaggi corretti, trasparenti e coerenti a tutti i pubblici, a tutti gli stakeholder.
Anche se i valori guida possono in parte cambiare nel tempo, una coerenza di fondo deve orientare un’impresa “sana”, la deve guidare in un mercato sempre più complesso e ipercompetitivo, la deve portare ad essere sempre responsabile di sé, delle proprie azioni e a impegnarsi, tramite scelte consapevoli, per raggiungere gli obiettivi che desidera raggiungere.
E’ evidente che per ciascun pubblico si possono e si debbono usare mezzi e stili comunicativi differenti. Ma è cruciale che la comunicazione ed il governo delle relazioni siano coordinate ed integrate. I messaggi non devono essere ambigui, casuali, poco trasparenti, ma devono rispondere, in modo quasi maniacale, alla nostra identità e ad una precisa strategia (sia all’interno che all’esterno). L’identità infatti non è altro che la possibilità di raccontare se stessi, la propria storia e trovare in essa un filo conduttore. In questo senso l’identità ha anche una forte componente narrativa che si rinnova costantemente in ogni nuovo racconto (incontro) e a seconda dell’ascoltatore. L’identità, e con essa la reputazione, si costruisce solo retrospettivamente come esito della narrazione e della qualità relazionale.
In conclusione, sia per le persone che per le organizzazioni il rischio maggiore che si corre nell’essere ambigui nel far conoscere la propria identità, è quello di aprire un conflitto con i diversi pubblici e, com’è noto, il conflitto non chiarito e non risolto degenera spesso in perdita di reputazione, scarsa attenzione, scarso interesse, indifferenza. Martin Buber, già negli anni quaranta del secolo scorso, metteva così in guardia le persone dai rischi del conflitto (e noi lo trasferiamo anche alle imprese): “Ogni conflitto tra me ed i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico”. In ogni organizzazione esiste una molteplicità di ruoli, di appartenenze, di percorsi culturali, anche contrastanti: la sfida più grande a cui sono chiamate le organizzazioni è quella di integrarle sulla base di valori condivisi e del capitale relazionale che si vuole costruire e mantenere nel tempo. Dopo settant’anni l’avvertimento di Buber, o oggi anche quello di Benedetto XVI, mantiene intatto tutto il suo valore e tutta la sua attualità. Anche per le organizzazioni e le imprese.

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?