Tra i numerosi motivi di inquietudine che attraversano questa afosa estate– dalla crisi economica all’instabilità politica- dobbiamo certamente annoverare i fatti di cronaca che a ritmo costante riguardano gesti di violenza e di furia omicida che hanno le donne come oggetto e gli uomini come sinistri protagonisti. Sembra un’epidemia, un’onda anomala che ha fatto impennare i numeri della violenza antifemminile, che erano già molto alti.

Non sono mancate, accanto alla nuda cronaca, alcune analisi che hanno tentato di scrutare nell’abisso di questo fenomeno. Tentiamo anche noi qualche riflessione. Perché capire non vuol dire giustificare ma riportare comunque ad una misura di umana comprensibilità comportamenti che fanno viceversa dubitare del percorso che ha condotto l’essere umano fuori dai domini della bruta pulsionalità. Ma, innanzitutto, stiamo attenti alle parole che usiamo. Non chiamiamo questa violenza omicida “delitto passionale”. Le parole contano, e dicono il sentire profondo di una società, marcano i territori antropologici entro cui viviamo e rappresentiamo le esperienze. Le parole non sono neutre tantomeno neutrali.

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In questi delitti la passione non c’entra. Non sono frutto di “amori sbagliati”o perfino eccessivi.
L’amore è una cosa troppo seria per tollerare confusioni e mistificazioni. L’amore tra un uomo e una donna, poi, ha una relazione così profonda ed essenziale con la vita– a partire proprio dalla sua nascita biologica- che il suo apparentamento con la morte è più “letterario” che sostanziale.
Eros e Thanatos sono una coppia simbolicamente feconda ma che andrebbe radicalmente ripensata e messa in discussione. L’amore che uccide si può chiamare ancora così? O piuttosto è il non-amore che –portato alle sue estreme conseguenze- non tollera che l’altro esista al di fuori di una struttura di dominio? Viene in mente quanto in modo insuperabile affermava Giovanni Paolo II nelle sua Mulieris Dignitatem a proposito di quella dignità della donna in quanto persona cioè essere “per sé” che è in relazione con un altro. Dignità dunque della relazione tra due persone che reciprocamente si riconoscono e si alleano in un progetto di vita che li unisce e li distingue nella comunione. Amore ha questa dimensione e questo respiro.
La cultura del possesso e della negazione dell’altro/a in cui siamo immersi ci fa banalizzare il male, come direbbe la Arendt, e chiamare delitto passionale quello che appartiene ai domini oscuri della malattia, del disagio e della disperazione. Abbiamo per questo il dovere di derubricare questi fenomeni di violenza sulle donne dall’orizzonte emozionale e di ricondurli per intero a quella sopraffazione che nasce dalla paura dell’altro, dal volerlo “possedere” come una cosa, dal non sopportare che sopravviva ad un legame malato. Dobbiamo continuare a ricordare agli uomini che è è proprio questo, ora  il momento opportuno per liberare la relazione con le donne da ogni residuo di brutalità, di distruttività, di abuso.
Dobbiamo soprattutto alle giovani generazioni trasmettere la cultura dell’alleanza tra uomini e donne in vista della vita e non della morte.
La responsabilità delle parole nasce anche da qui. L’amore è “passione” nel senso che sa anche passare attraverso la sofferenza e sa essere più forte del dolore. Sa sopportare che l’altro sia, viva .
Anzi: vuole che l’altro sia più di se stesso. Guardiamo perciò a questi fenomeni di morte come a ciò che è esattamente agli antipodi dell’amore e non una sua degenerazione.
Abbiamo il dovere di difendere uomini e donne del nostro tempo da tutto quello che li defrauda di questa possibilità e inesauribile ricchezza del loro incontro.
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