Crescita, produttività e lavoro sembrano essere diventati il tallone d’Achille per un paese come il nostro, afflitto da molteplici problemi e contraddizioni. L’Italia è arrivata all’appuntamento storico con la grande recessione mondiale del 2008 portando sulle spalle il fardello di almeno due decenni di sostanziale immobilismo sociale. Ne è una riprova il perdurante divario che ci separa dai nostri partner nella UE rispetto agli indicatori di benchmark individuati nell’Agenda di Lisbona» e in «Europa 2020». Nonostante questo gap figuriamo ancora fra le principali economie industriali a livello planetario, grazie al dinamismo del made in Italy, che ha continuato a proiettarsi con successo sui mercati internazionali anche negli anni della crisi. Ben diversa è la condizione delle imprese agganciate alla domanda interna, che non hanno recuperato le posizioni perdute lo scorso decennio. Al di là della crescita stentorea e di questa divaricazione economica, è necessario tener conto dei mutamenti in atto nell’economia globale: la green economy, industria 4.0 e il capitalismo delle piattaforme stanno riconfigurando le catene di creazione del valore e la stessa natura del lavoro.
L’idea di costituire un osservatorio sui mestieri e le professioni nasce in questo contesto in rapida evoluzione, in un frangente nel quale i decisori pubblici, gli operatori economici, le parti sociali e gli stessi esperti cercano nuove ricette per coniugare sviluppo economico e coesione sociale. Diverse sono le criticità di cui bisognerebbe occuparsi per ridare slancio al sistema produttivo e creare lavori duraturi e adeguatamente remunerati; tra le questioni più urgenti e spinose non si possono non menzionare il mismatch del mercato del lavoro, che impedisce a una quota considerevole di aziende di trovare i giusti profili da inserire nei propri organici, la sostanziale incompiutezza delle politiche attive del lavoro e la convinzione, assai radicata nella nostra società, che i mestieri (professioni tecniche, esecutive e manuali) siano in qualche misura lavori di «serie B», sebbene possano essere, a certe condizioni, gratificanti e ben pagati. L’osservatorio Opera si propone di raccogliere informazioni salienti sui mestieri consolidati ed emergenti, attraverso studi circostanziati a carattere qualitativo e quantitativo.
Nel primo report, presentato in un seminario pubblico il 22 ottobre 2019, sono stati illustrati e commentati i risultati di un’analisi sulle prospettive occupazionali delle professioni che rientrano nel raggio di competenze dei sistemi formativi regionali, nell’ambito dei quali vengono rilasciate le qualifiche e i diplomi IeFP (Istruzione e Formazione Professionale). La base empirica di questa indagine è costituita dagli open data sulle comunicazioni obbligatorie di assunzione dei datori di lavoro (Sistema SISCO-CICO), resi periodicamente accessibili dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Si tratta di un archivio informativo esauriente ed aggiornato sulle dinamiche in atto nel mercato del lavoro (si veda l’appendice). Qui di seguito si riepilogano alcuni dati e tendenze particolarmente significativi.
I mestieri della IeFP rappresentano un ragguardevole bacino d’impiego, stimabile in poco meno di un terzo dell’occupazione esistente in Italia al termine del 2018: 4.327.119 posizioni lavorative attive alla fine dell’anno, pari al 29,9% del totale. La loro rilevanza sociale è quindi dettata dall’impatto che esercitano sul mercato del lavoro, benché non trovino grande spazio nel dibattito pubblico. Tra gli impieghi più gettonati vi sono l’operatore della ristorazione (382.657 rapporti di lavoro, 14,2% sul totale), l’operatore agricolo (340.544, 12,6%), l’operatore dei servizi di vendita (130.292, 4,8%), l’operatore edile (87.132, 3,2%) e l’operatore dei sistemi e dei servizi logistici (53.506, 2,0%). Facendo un rapido conto questi 5 lavori concentrano il 36,8% delle posizioni lavorative attivate nel nostro paese negli ultimi tre mesi del 2018. Sono numeri imponenti, dietro ai quali si celano molteplici figure lavorative: nella ristorazione cuochi, personale di cucina, pizzaioli, camerieri e capi sala; in agricoltura coltivatori, braccianti, allevatori, giardinieri e fiorai; nei servizi di vendita commessi e cassieri; in edilizia muratori, manovali e mattonatori; nella logistica e nei trasporti facchini, corrieri e autisti.
Si tratta di mansioni perlopiù esecutive e manuali, che ricadono in una fascia medio-bassa degli organigrammi aziendali: ciò non significa che in una selva di attività considerate in genere poco prestigiose non si possano rintracciare carriere più gratificanti e redditizie. Si pensi agli chef stellati e ai maître che vanno a lavorare in locali e alberghi esclusivi; o ai flower designer che operano nel settore dei ricevimenti, vendendo a caro prezzo i loro allestimenti; o ancora ai mosaicisti, agli stuccatori e agli ebanisti le cui lavorazioni di pregio ornano abitazioni o uffici lussuosi. Molto dipende dalla posizione contrattuale acquisita dal lavoratore, dalla sua rete di conoscenze e dalle risorse che può investire per aggiornare costantemente il proprio portfolio di competenze. Questo rilievo vale ovviamente non solo per le qualifiche professionali più diffuse, ma anche per quelle meno frequenti, come gli operatori del benessere e delle trasformazioni agroalimentari, gli addetti amministrativi e il personale di segreteria, gli operatori meccanici ed elettrici, i manutentori di barche e gli addetti ai servizi di accoglienza, i quali nel trimestre in esame oscillano tra 26mila e poco meno di 13mila unità, con percentuali che variano dall’1% allo 0,5%; analogo discorso si può fare per la composita platea di mestieri che appaiono ancora più sottodimensionati, attestandosi sotto le diecimila unità: operatori dell’abbigliamento, addetti agli impianti termoidraulici, operatori delle calzature e del legno, meccanici, grafici, personale che lavora nel settore ittico, grafici, addetti alle lavorazioni artistiche o alle produzioni.
La provvisorietà è il dato di fondo che emerge quando si esamina la condizione contrattuale tipica di questi impieghi: nel 78,5% dei casi si tratta di occupazioni a termine; se si somma anche il lavoro intermittente (7,1%) si tocca una quota superiore all’85% di rapporti di lavoro caratterizzati dall’instabilità. Accanto a ciò, è indicativo che le sostituzioni siano quasi del tutto assenti tra tali mestieri (0,6%, contro l’8,3% nei lavori diversi dalla IeFP); per buona parte ciò è indice della scarsa presenza di lavoratrici che vanno in maternità, non sentendosi probabilmente protette a sufficienza dal contratto di lavoro. A richiamare l’attenzione è anche l’orario di lavoro: il tempo pieno sale al 69,2% nei mestieri esaminati nella ricerca, a fronte del 53,1% nel resto delle posizioni lavorative; tale scarto positivo di 16,1 punti percentuali mostra come questi lavori tengano impegnate le persone per gran parte della giornata, lasciando poco spazio per altre attività con cui potrebbero integrare il reddito o accrescere le proprie competenze. I mestieri del circuito IeFP non sono pertanto occupazioni accessorie; essi implicano un forte coinvolgimento in termini di tempo ed energie da parte dei lavoratori, nonostante questi ultimi si debbano spesso accontentare di contratti a termine, che offrono poche garanzie per progettare una carriera o alimentare la vita familiare. Il concetto di precarietà riassume bene questa condizione alquanto disagevole.
In alcuni contesti territoriali la vulnerabilità rischia di accentuarsi, laddove vi sono in generale scarse opportunità di impiego. In numerose regioni meridionali i mestieri della IeFP possono rappresentare una fra le poche alternative alla disoccupazione, come attestano i tassi di incidenza di tali professioni sulla totalità dei rapporti di lavoro attivati nel 2018: Puglia (72,4%), Basilicata (72,9%), Calabria (61,9%) e in misura minore ma pure sempre rilevante, Molise (57,3%) e Sicilia (56,9%). Si viene in tal senso a determinare una sorta di «effetto porta girevole» in quelle aree geografiche dove la stagnazione o la marginalità economica sono più evidenti: numerosi giovani e lavoratori maturi si arrangiano facendo i camerieri, gli acconciatori, i manovali, i commessi, i corrieri, i facchini, i braccianti, i commessi o semplicemente svolgendo mansioni di routine negli uffici di microimprese sparse nelle città e nei centri minori. Grazie a questi «lavoretti», troppo spesso malpagati ed insicuri, si entra dalla porta d’ingresso del mercato del lavoro, ma si fa presto ad uscirne.
La carenza di capitale umano è evidente in queste professioni. Alla fine del 2018 il 62% dei lavoratori chiamati a svolgere mestieri IeFP avevano al massimo conseguito la licenza media, a fronte del 44,5% nella totalità degli occupati; questi 17,5 punti percentuali in più danno la misura di quanto siano poco istruiti e formati i cittadini che intraprendono i mestieri popolari della IeFP. Se fossero in età scolare questi italiani sarebbero oggi obbligati a completare il ciclo di studi quantomeno fino all’età di sedici anni. Il problema è che si tratta di persone piuttosto in avanti con gli anni; ci vorrebbe un piano di riqualificazione professionale per un’amplia platea di donne e uomini non più giovani, che rischiano di rimanere intrappolati nella sottoccupazione senza intravedere alcuna via d’uscita.
Non bisognerebbe proporre a costoro di ritornare sui banchi di scuola per un lungo periodo di tempo; basterebbe che acquisissero una qualifica professionale biennale o triennale, magari in orari e giorni compatibili con il proprio impiego, per veder migliorare sensibilmente il proprio status sociale, come quel 6,6% dei colleghi che svolgono lavori simili e hanno già ottenuto tale qualifica. L’effetto positivo di questo investimento formativo può essere apprezzato fra chi è stato assunto nel 2018: la probabilità di non perdere il lavoro nell’arco di dodici mesi aumenta in modo significativo per chi ha preso un titolo professionale biennale o triennale rispetto a chi si è fermato alla licenza media: si passa dal 30,1% al 47,9%. Due o tre anni di formazione in più possono fare la differenza, in modo non troppo dissimile da titoli di studio più lunghi e impegnativi, come il diploma secondario superiore quinquennale (45,8%) e la laurea, diploma terziario o titolo post-universitario (51,4%).
La formazione, se ben congegnata, potrebbe essere la leva giusta per far compiere un salto di qualità nei percorsi professionali di molte persone che svolgono professioni della IeFP, costrette ad un continuo viavai fra impieghi di breve durata, che spesso sono poco remunerativi, oltre ad essere scarsamente gratificanti e faticosi.
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