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L’occasione della 43a Giornata delle comunicazioni sociali (24 maggio) ha suscitato un’ampia riflessione sui nuovi media e sui loro effetti sulle persone. Il tono prevalente è quello ottimistico, che, anche in base al messaggio del papa, sottolinea le straordinarie opportunità relazionali e conoscitive che le nuove tecnologie della comunicazione offrono specialmente ai giovani.

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Ed effettivamente l’esplosione di Internet e dei nuovi Social Networks, da Facebook (5 milioni di iscritti solo in Italia) a Netlog, come d’altronde la rete capillare dei cellulari, sembra ormai aver connesso un po’ tutti con tutti, nell’immediatezza del tempo reale e fino agli angoli più sperduti del pianeta.rn

Siamo tutti “amici” ormai, siamo tutti creatori di immagini/video/informazioni, la democrazia cresce attraverso un sapere sempre più diffuso e alimentato dal basso, plasmiamo come veri artisti l’ambiente virtuale terrestre, secondo il sogno di Mc Luhan, e la Rete fiorisce di dialoghi e di idee, di scambi creativi e di nuova fraternità universale.

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Ma è davvero così? Oppure stiamo proiettando un nostro desiderio su una realtà ben diversa?

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Io penso che le cose siano molto più complesse e contraddittorie, e che questa saturazione informatica ci porti anch’essa, come altri settori dello sviluppo tecnologico, ad un punto decisivo, ad un vero e proprio bivio, in cui dovremo decidere come orientare questa frenesia delle telecomunicazioni, che rischia di trasformarsi in una sorta di “comunicomania”, come la definisce lo psicoanalista americano James Hillman, e cioè in un altro sintomo della pazzia contemporanea.

Mi spiego. Tutti questi strumenti tecnologici sono per davvero straordinari e posseggono un potenziale sconvolgente e ancora ben poco pensato. Il problema però è: ma CHI ne può fare un uso creativo ed evolutivo? Quale tipo di uomo? Dobbiamo cioè dire con chiarezza che questi strumenti, come tutti i mezzi/media del mondo, dalla ruota in poi, dipendono poi dalle mani di chi li utilizza, e cioè dalle menti/cuori/spiriti degli esseri umani, dalla nostra capacità di servircene come mezzi per uno scopo.

A volte sembra invece che il mezzo diventi il fine stesso della comunicazione: sto su Facebook solo perché c’è questo nuovo spazio e io devo occuparlo per forza, non perché abbia qualcosa da dire di me o del mondo. E infatti la comunicazione prevalente in queste “comunità”(?) è poco più che da asilo infantile: vuoi essere mio amico? Dove stai? Cosa fai? Mi mandi una foto? E così via.

Quando cioè il mezzo diventa il fine stesso della nostra azione, l’uomo rischia di perdersi, come ci ha insegnato Marx rispetto all’uso del denaro.

Sono queste le “nuove relazioni”, invocate da Benedetto XVI? Non credo. E’ questa l’amicizia che crescerebbe sulla rete? Questo ammassarsi di 500/1000 persone intorno ad un nulla di contenuto? “O miei amici, non c’è nessun amico”, lamentava già Aristotele: troppi “amici” significa in realtà nessun amico, nessuna persona con cui veramente ti togli la maschera cibernetica, il tuo noiosissimo avatar, e provi a dirgli ciò che per davvero ti brucia nel cuore.

Bazzicando da alcuni anni nel cyberspazio dei blog ho incontrato tantissima comunicazione superficiale e spesso aggressiva, competitiva, una marea di micro-ii, ognuno col proprio blog, pronti a scontrarsi per giorni e giorni su qualsiasi argomento. Spesso mi ha pervaso un amaro sentimento di impotenza, come davanti a persone che compensino disperatamente un senso profondo di inconsistenza e di vuoto, saltellando da un blog all’altro in modo isterico e rapace.

CHI dunque può fare un uso davvero evolutivo di questa rivoluzione telematica? Questa mi sembrerebbe l’unica domanda seria da farci.

Il Censis ci dice che il 95,5% degli italiani vede la TV tutti i giorni, mentre solo il 35% compra un giornale almeno 3 volte alla settimana (e spesso sportivo), e addirittura un misero 29,9% legge almeno 3 libri ogni anno. Siamo in altri termini un popolo poco più che analfabeta, quasi del tutto eterodiretto. Altro che mondo di creativi telematici!

E il discorso non sembra diverso a livello planetario. Il Mc Luhan programm dell’Università di Toronto ci informa che in una proiezione statistica i ragazzi cresciuti in ambiente telematico dedicheranno nell’arco della loro vita ai libri il 2% del tempo dedicato soltanto all’uso di e-mail e SMS. Sapranno questi ragazzi selezionare ciò che è davvero utile per la loro crescita complessiva nei labirinti virtuali di Internet?

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Non facciamoci illusioni. Lo psicologo Kenneth Gergen ci metteva in guardia già negli anni ’90: “Questa frammentazione della percezione di sé corrisponde a una molteplicità di relazioni incoerenti e fra loro sconnesse. Queste relazioni ci spingono in una miriade di direzioni, invitandoci a interpretare una varietà di ruoli tale da far sfumare il concetto stesso di ‘sé autentico’, dotato di caratteristiche conoscibili. Il sé completamente saturato diventa un non sé”.

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E allora credo che dovremmo dire con chiarezza che non ci sarà alcun progresso umano attraverso questa esplosione comunicativa se non ci impegneremo in una simultanea e radicale rivoluzione antropologica che dia ad ogni essere umano un nuovo centro spirituale, da cui orientarsi in questa   babele di lingue computerizzate. Dobbiamo ridare alla scuola, alla cultura, e alla chiesa la loro potenza direttrice, e per far questo dobbiamo rianimarne le radici dalle fondamenta. Dobbiamo ricordare ai nostri ragazzi che se non leggi decine di libri ogni anno quello che metterai su YouTube sarà comunque di scarso valore e del tutto autoreferenziale, e che se non impari a fare silenzio mentale, a staccare cioè la mente dal Web, se vuoi farlo, diventerai solo uno zimbello di questo nuovo gioco planetario in gran parte diretto da potentissime industrie di settore che pilotano il mercato delle novità, e che devono abbreviare di continuo il ciclo di vita dei loro prodotti.

Certamente il nostro futuro dipenderà dal tipo di equilibrio che riusciremo a creare tra relazioni fisiche e rapporti virtuali. A me sembra che anche le relazioni telematiche abbiano sostanza solo se fioriscono e se continuano a nutrirsi di relazioni corporee, fatte di affetti e di progetti vissuti in comune. In tal senso nei Gruppi di trasformazione, che conduco da più di 10 anni, abbiamo aperto il   Blog www.darsipace.it solo dopo 8 anni di sperimentazione del nostro lavoro. La tecnica cioè, ancora una volta, deve rimanere al servizio dell’uomo, uno strumento di servizio. Se non rimettiamo in ordine queste priorità rischiamo, come dice Jeremy Rifkin “una massiccia degenerazione della capacità dell’uomo di essere in contatto con gli altri al livello più profondo dell’esperienza personale. Cioè, in ultima istanza, la perdita di umanità”.

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