Vi sono persone che, presenti ad un avvenimento, sentono l’urgenza di scattare primi piani, di non farsi sfuggire nulla di ciò che stanno vivendo, di portare a casa il maggior numero di immagini possibile. I media stessi, comprendendo la grande diffusione di questi atteggiamenti, hanno ripensato la loro struttura dando ampio spazio ai filmati amatoriali. Addirittura il Tg1, nell’edizione delle 20, è arrivato a mandare in onda i filmati dei telespettatori. Basta estrarre il nostro telefonino dalla tasca, attivare l’apposita funzione, ed ecco rapito l’attimo che ci interessa, incamerato nella memoria della macchina, prima ancora che in quella dell’uomo.
Come sempre accade, la rivoluzione tecnologica porta con sé anche la rivoluzione dei comportamenti delle persone. Se fino a qualche anno fa si scattavano foto solo nei momenti importanti, e quindi si era costretti a scegliere preventivamente quali momenti per noi non potevano non essere immortalati, oggi si rimanda la scelta, si riprende tutto, convinti che tanto si deciderà poi cosa tenere e cosa scartare. Con il risultato che solitamente si tiene tutto perché il momento della scelta viene continuamente rimandato, sommerso dalla necessità di fotografare e riprendere altri momenti.
Ma il nostro atteggiamento è cambiato anche rispetto alla nostra effettiva presenza agli eventi che viviamo. Cambia il nostro modo di esserci. Se prima eravamo presenti con tutto noi stessi, perché non potevamo che vivere il presente visto che non era possibile imprigionarlo, se non nella nostra memoria, oggi la nostra presenza spesso è evanescente. Diventiamo dei bibliotecai della memoria artificiale, perché sembra più importante dar da mangiare alla memoria del nostro computer, che vivere intensamente ciò che il presente ci dà da vivere. E’ una fuga dalla vita, dove la macchina fotografica o la cinepresa diventa uno scudo tra noi e la nostra esperienza. Una estensione narcisistica di noi stessi, una gabbia che distorce la nostra percezione del tempo.
La possibilità di creare un’immagine di ciò che si vive, infatti, è un’esigenza sempre esistita nell’uomo. La necessità di immortalare, di rendere immortale, un momento, una persona, una storia, è, spesso, la radice da cui sono nate molte opere d’arte perché è naturalmente insita nell’uomo la voglia di ricordare, ma, ancor di più, di connettere ciò che si è vissuto con l’origine stessa di quel vissuto, con il senso più profondo della vita: il mistero. Ma ciò che stiamo vivendo oggi, questo immortalare consumistico è tutt’altro, pare che, più che rendere immortale, sia destinato a “immettere la morte”, se per morte intendiamo la incapacità di cogliere il presente in tutti i suoi significati, in tutti i suoi legami con il nostro passato e il nostro futuro.
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