Viviamo in un tempo instabile. Instabile, sul piano dell’informazione e della comunicazione, fagocitata ogni ora che passa, e sempre di più, nei meandri della rete, in forme nuove – ma secondo i ben più comuni modelli delle reali relazioni sociali – di intervento, di partecipazione alla notizia, di adesione a un punto di vista più o meno comune, o a un punto di vista piuttosto che a un altro, forme nuove di condivisione, di mediabilità.

Internet col web 2.0 ha portato infatti a una rivoluzione che, come ha considerato Antonio Spadaro, ha «salde radici nel passato: replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano. Quando si guarda a internet occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere: comunicazione, relazione e conoscenza».

È una rivoluzione che compromette costantemente la stabilità dei tempi: perché è capace di far scricchiolare ogni autorità, ogni “ti spiego tutto io”, ogni “segui me”, mentre nello scompiglio generale sembra che qualcuno inizi più o meno quatto – quatto – a correre ai ripari. Ma quali ripari? Quando la cultura che, in senso lato, passa anche attraverso i media, perde il proprio ruolo nella “consapevolezza democratica” delle masse (come direbbe Michela Murgia), diventando piuttosto “generatrice di consenso”, davanti alla rete dove i pensieri e le opinioni circolano con maggiore libertà, allora inizia il guaio.

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Non è certamente una constatazione nuova, ed è alla portata di tutti e sotto gli occhi di tutti: al di là di ogni analisi sociologica e specialistica sulla questione, non mi è chiaro però quanto, ad esempio, comunemente, i risvolti della rivoluzione in corso siano stati colti dai professionisti dell’informazione o presunti tali, o dai semiprofessionisti, o dai militanti. Non mi è chiaro, o forse non lo percepisco. Ma chi scrive, ad esempio, nel giro di pochi istanti finirà ineluttabilmente nell’infinita bolla gracchiante dei grilli parlanti del globo. Né più e né meno di altri, su qualunque supporto lo facciano, con le stesse potenzialità di intervento – comunque favorite dall’attendibilità di un’etichetta piuttosto che di un’altra, ma favorite in un modo assolutamente limitato – e con la stessa probabilità di incisione sulla diffusione di un contenuto, piuttosto che di un altro (e limitando magari il peso della grammatica, o di conseguenti denunce e querele, di ogni legge più o meno fantasiosa prodotta in materia). È chiaro che si tratta di un processo, anche per sua natura, comunque in corso. Ma i risultati sono già tanti, e si vedono; nel frattempo qualcuno correrà e corre già ai ripari. Basteranno ancora pochissimi – pochissimi – passaggi generazionali: ho la sensazione che allora, anche l’orchestra, smetterà di suonare.

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Non sono sicuro, ancora ad esempio, che gli stessi professionisti della comunicazione siano consapevoli del ruolo svolto dalla commentabilità di una notizia. Anche perché in rete, dai blog ai social network, mi pare che la differenza tra i sistemi di relazioni virtuali attuali e quelli di pochi anni fa sia sostanzialmente questa: il commento e la condivisione, anche se il documento in questione (testo, immagine, video) verrà visionato e pubblicamente commentato altrove. Nel frattempo continua a circolare la purissima dicotomia del supporto (roba bella ma per tempi andati) che contrapporrebbe internet ai media cronologicamente precedenti, la televisione alla rete, l’autorità alla democrazia o all’anarchia purissima che dir si voglia, la voce del padrone al timido bisbiglio dell’operaio. Perché la rivoluzione in atto non è basata sulla sostituzione di un media con l’altro. Invece ogni notizia prodotta da tg, quotidiani, riviste, produzioni editoriali su carta o su qualunque altro supporto, quotidianamente, ogni notizia viene semplicemente smontata, come ogni altro contenuto, e lo sarà sempre di più. La sua influenza di base è limitata. La notizia commentabile per sua natura viene smontata, e all’insaputa dell’autore, del giornalista, del direttore, senza chiedere permesso, pubblicamente e non al tavolino di un bar, senza pagare pegno a un qualunque reticente confezionatore di turno. Che non potrà scegliere più o meno onestamente, come adesso continua a fare, le lettere dei suoi lettori per il suo giornale, i commenti da far passare e quelli da limitare.

I punti discutibili per un dibattito più onesto, comunque si facciano i conti, mi sembrano sempre davvero questi: l’affidabilità delle notizie e delle voci autorevoli che continueranno sempre di più a cedere, indistintamente, nel loro concepimento, al potente di turno, e la loro conseguente incapacità di tenere il passo con un mondo che ha iniziato a suonare un’altra musica, e su un’altra nave. Mondo che non si contrappone per via del supporto, o perché preferisce altro formato: si contrappone perché smonta, partecipa, commenta, sceglie, e la popolarità cresce sulla popolarità e non sulla disposizione del pezzo in pagina, o sulle dritte affidate alla voce scelta per il fuoricampo. Perché c’è da giurarlo: il confezionamento, così indifeso, davanti al “grande media”, continuerà sempre più ad arroccarsi sulla sua collina di potere, e magari a guardare sempre più all’audience che al contenuto, fisiologicamente, giustamente a difendersi ma magari sbagliando. Mai tanto come allora e come adesso – nell’attimo esatto del transito – serviranno occhi attenti e più sensibili, occhi più lucidi che sappiano guardare forse più di ieri ma in faccia un bene che abbia almeno parvenza di essere comune.

Poi tutto questo risulterà ai tanti più navigati forse banale, magari ingenuo, e più volte blaterato, e in più lingue. Ma mi viene in mente (da una parte) l’ascendenza dei mistici di Pavel Florenskij che – se non dovessero lasciarli passare – se non dovessero lasciarli passare con le buone, sfonderanno porte preziose sul loro cammino. Mi viene in mente (dall’altra) la Lettera aperta ai professori di Lettere di Davide Rondoni (pagina magistrale), mentre nel tradimento generale di chierici e giornalisti, editori ed esperti di comunicazione, agenzie di eventi letterari e autori di ogni genere e sorta, come ai monaci e ai guerrieri, gli si chiederà in ginocchio di non tradire – di non tradire. «Alzatevi in piedi, piuttosto, leggete. Fate teatro di questa vita della lingua quando in essa giunge il colpo della vita». Comunque vada quando ci sarà il vostro momento allora non tradite, almeno voi, che scrivete leggete e raccontate, che siete tanti, anche se quella della fede, della fedeltà, della parola, della letteratura, vi sembrerà un’altra storia.

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