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Ne ha parlato Antonio Spadaro, il 20 novembre scorso, sulle pagine di Avvenire: né i Vangeli del credente, né la stessa teologia richiedono alla letteratura (qualunque letteratura) copie più o meno fedeli del Gesù Cristo delle Scritture (affinché quella stessa laica letteratura sia definita, diciamo noi, in qualche modo e misura, cristiana).rnrnrn

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Perché «la storia di Gesù è la storia dell’uomo, il dramma dell’uomo, la gloria dell’uomo», e lo ricorda sempre Spadaro. A una versione romanzata del Nuovo Testamento, o a un racconto ispirato e storicamente fondato, andrebbe infatti opposta, almeno simbolicamente, una battuta di Jack Kerouac come replica a una domanda («Perché non ha mai scritto di Gesù?») di Ted Berrigan: «Io non avrei scritto nulla di Gesù? Non fare l’ipocrita… e… tutto ciò che ho scritto è Gesù».

Per farla breve: viene da pensare che, affinché una qualunque letteratura richiami la vita di Cristo, in fondo, non vi siano questioni di nomi, o di citazioni, o di professioni di fede, o di attestati di nobile credenza a fare da sfondo. Lo stesso autore diceva anche che la percezione della realtà di Cristo potrebbe offrirsi «attraverso la presentazione di volti differenti, che rispondano o meno al nome di Gesù». Concludeva (chiudendo su alcuni passaggi ben più profondi di queste poche righe) citando Pasolini: «Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica, non contraddicessero mai la vostra sensibilità di credenti. Perché altrimenti non raggiungerei il mio scopo di riproporre a tutti una vita che è modello – sia pure irraggiungibile – per tutti».

Così scriveva Pasolini, infatti, in una lettera privata nei tempi di preparazione del Vangelo secondo Matteo. Professandosi fondamentalmente ateo, diceva anche: «Io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente – almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità».

Ci sono due annotazioni, davvero stimolanti, che recuperiamo dalla pagina di Spadaro e da quella di Pasolini: l’idea del modello, che è quello della vita di Gesù, che non è bello perché Gesù è Gesù, perché insomma quel “personaggio” lì è figlio di Dio, è Dio, e lo è per i credenti. Scandaloso ma: è troppo poco. Recuperiamo infatti un’altra annotazione: quella di un’alta, tanto alta da divenire irraggiungibile, altissima umanità del modello in questione. Ancora troppo poco: perché c’è un dubbio, legato alla letterarietà delle Scritture, e alla canonicità della letteratura, che tiene in bilico uno specchio che può essere rivolto (di per sé) verso due oggetti. Che può essere due cose: l’umanità da una parte, la letteratura dall’altra. Chi riflette cosa?

Allora ricomponendo un mosaico ideale, perfettamente opinabile, che passi per l’intervento di Spadaro, verrebbe da aggiungere: ma se invece il rapporto tra letteratura e Vangeli venisse capovolto? Cioè: se la letteratura non avesse per nulla origine da «storie vissute e immaginate o dal loro racconto», come ricorda invece Spadaro?

C’è quindi una nuova annotazione, ultima ma essenziale: ed è una cosa sottile, è una circostanza possibile ed è una domanda.

È vero anche che un passaggio teorico di questo tipo (che si snoda attraverso poche righe che stridono col resto) non è semplice, ed è rischioso, e andrebbe riletto oltre la scorza dell’apparenza: ma vale la pena tentarlo. Almeno per un motivo: la tesi di Spadaro è apprezzabile, ma vogliamo aggiungere uno scacco tra punti di vista, che conseguentemente contraddice alcune considerazioni su quel rapporto tra Scritture e mondo delle lettere, inteso come rapporto di semplice influenza.

Nel 1915, il simbolista russo Fëdor Sologub (1863-1827) sosteneva: «È assai diffuso l’errore che l’arte sia lo specchio della vita, che sia una derivata della vita. La gente ritiene di essere oggetto di osservazione da parte dei poeti e che questi ritraggano la sua vita; gli uomini pensano di essere loro il soggetto dei romanzi, dei drammi, dei poemi. Credendo che l’arte li ritragga, essi vengono all’arte per riconoscere se stessi e trarre dallo spettacolo lezioni morali. […] Possiamo fare un’ulteriore concessione al pregiudizio comune. Se volete, esiste uno specchio, ma non quello dell’arte rispetto alla vita, bensì della vita rispetto all’arte, e quanto si fa nell’arte trova riflesso sul volto e nell’anima di chi la percepisce».

Allora la storia di Gesù – e questo sarebbe bello, e terribile, o magari meraviglioso e straordinario – storia sempre unica che riannoda in sé i fili apparentemente spezzati di visibile e invisibile, sarebbe storia che fa la storia dell’uomo, che drammatizza la vita dell’uomo, e che alla fine però, sempre, in una qualche misura che potrebbe non rispettare i canoni dei termini umani utilizzati, glorifica l’uomo. Storia che, se è “arte”, non solo può risplendere altrove, ma è perfino incompiuta. Su tre annotazioni (riguardo al modello, all’umanità, alla letteratura) si innesta quindi il nocciolo della questione: lo specchio. E se la letteratura, Vangeli inclusi, non agisse per influenza morale, ma fosse davvero l’oggetto che viene naturalmente riflesso?

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Percorso bibliografico:

1. A. Spadaro, E Kerouac disse: «Tutto ciò che scrivo è Gesù Cristo», in Avvenire, 20 novembre 2008, p. 29.

2. P.P. Pasolini, Lettera a L.S. Caruso, in G. Gambetti (a cura di), Il Vangelo secondo Matteo. 
Un film di Pier Paolo Pasolini
, Milano 1964; anche su: [www.pasolini.net]

rn3. F. Sologub, L’arte dei nostri giorni, in A.D. Siclari (a cura di), Simbolisti russi. Belyj, Brjusov, Ivanov, Sologub, Edizioni Zara, Parma 1990, pp. 171-195.rnrnrn

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