Come è noto le politiche del lavoro vengono classificate in sede europea secondo un modello che distingue tra tre componenti: i servizi per il lavoro, le politiche cosiddette attive o misure di attivazione e le politiche passive, (la cui definizione corretta è supporti economici) che includono tutte le forme di sostegno al reddito per i lavoratori e le persone in cerca di lavoro compresi prepensionamenti.
Tale classificazione è di grande importanza perché nel corso degli ultimi 15 anni ci ha permesso di confrontare la spesa ed i livelli di accessibilità alle diverse componenti delle politiche del lavoro nel nostro paese con quelli dei nostri partner europei fornendo indicazioni preziosissime su come migliorarne l’efficienza e l’efficacia.
Ed è proprio grazie a tale confronto che il nostro paese ha acquisito una crescente consapevolezze sui ritardi nello sviluppo delle politiche attive del lavoro. Nel corso degli ultimi 10 anni infatti diverse commissioni di inchiesta parlamentare così come la maggior parte degli istituti di ricerca hanno evidenziato che sia in termini di spesa sia in termini di accesso il sistema delle politiche attive il sistema italiano manifesta diverse criticità in particolare nello sviluppo dei servizi per il lavoro e nell’accesso alla formazione soprattutto per le fasce più deboli del corpo sociale.
Nell’ultimo anno, con la legge 4/2019 che introduceva il reddito di cittadinanza, è stato varato in accordo con le Regioni, un Piano straordinario di potenziamento dei centri per l’impiego e delle politiche attive [1] che prevede consistenti finanziamenti, consentendo alle Regioni di rafforzare l’organico e le dotazioni tecnologiche dei CPI e sono già numerose le amministrazioni regionali che hanno avviato i concorsi per il reclutamento di nuovo personale. Senza contare l’investimento su circa 3000 navigator, che in base alle convenzioni con le regioni stipulate da Anpal servizi, avranno il compito di supportare gli operatori dei CPI nell’affrontare la sfida del reddito di cittadinanza.
Va detto, per dovere di cronaca che già nel contesto del Jobs Act erano stati fatti diversi passi avanti con l’introduzione dei Livelli essenziali delle prestazioni per gli utenti dei servizi ed una prima apertura al rafforzamento del personale, ma non vi è dubbio che la vera svolta si è realizzata con il Piano straordinario varato nel 2019. Ovviamente sviluppo dei servizi non potrà che esser graduale ed i risultati di tale investimento si vedranno negli anni a venire. Tuttavia è evidente che il rafforzamento quantitativo e qualitativo delle dotazioni di risorse umane e tecnologiche della rete dei servizi pubblici per il lavoro è destinato ad aprire una nuova fase. Ma il miglioramento delle prestazioni dei servizi è una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire una maggiore accessibilità alle politiche attive del lavoro.
Infatti, se un disoccupato giovane o adulto non possiede le competenze sufficienti ad affrontare il processo di reinserimento nel mercato del lavoro la logica ci dice (e se per questo anche la norma) che dovrebbe partecipare ad attività formative, coerenti con la sua storia ma anche con la domanda di mercato. Se l’offerta formativa è carente, non è disponibile al momento o non esiste (e se parliamo di disoccupati dovrebbe essere in forma gratuita) il centro per l’impiego o l’agenzia di intermediazione possono fare ben poco. Siamo sicuri che offerta di opportunità formative per i disoccupati e per gli iscritti ai CPI sia oggi sufficiente su tutto il territorio nazionale?
Partiamo dalla platea dei beneficiari di RdC (Reddito di Cittadianza). Dai dati ISTAT sappiamo che la popolazione in condizione di povertà assoluta (ossia quella elegibile per il RdC) ha livelli di istruzione molto bassi: il 66% non va oltre la licenza media. A metà dicembre 2019 degli oltre 790 mila beneficiari di RdC indirizzati ai CPI, 440 mila sono stati convocati, 330 mila si sono presentati alla convocazione, 44 mila sono stati esonerati e 220 mila hanno sottoscritto il Patto di servizio per avviare il percorso di politiche attive. L’assegno di ricollocazione, gli incentivi e, per i più giovani, misure come i tirocini o l’apprendistato costituiranno sicuramente delle importanti opportunità di reinserimento per quella parte della platea per così dire “work ready” ossia già pronti ad affrontare il lavoro (a dicembre 28 mila beneficiari avevano già trovato una opportunità di lavoro). Ma per una buona parte, per coloro che sono più distanti dal mercato del lavoro e che difficilmente dispongono di competenze spendibili tali da permettergli “rebus sic stantibus” di trovare un’occupazione risulterà necessario un importante intervento formativo.
Parliamo di una quota rilevante della platea dei beneficiari per i quali la formazione professionale potrebbe essere il vero antidoto alla condizione povertà. Ma attenzione. Il fabbisogno di formazione non è circoscritto solo alla platea dei beneficiari di reddito di cittadinanza. Anche altre categorie di lavoratori disoccupati o di inattivi che intendono rimettersi in gioco avrebbero un disperato bisogno di interventi strutturati di formazione professionale. Basti pensare che nel 2018 i giovani tra i 18 ed i 24 anni con al più la licenza media che non hanno alcuna qualifica professionale e non frequentano alcun corso sono in Italia il 14%, percentuale che sale la 22% nel mezzogiorno. Parallelamente gli adulti tra i 25-64 anni che frequentano un corso di studio o di formazione professionale sono l’8,1% sulla popolazione della stessa classe di età ed anche in questo caso la percentuale si riduce al 6% nel mezzogiorno. Viene da chiedersi dunque se l’offerta di formazione professionale sia sufficiente o meno e soprattutto se lo sia in tutte le Regioni.
Purtroppo in questo caso il confronto con i nostri partner europei è difficile se non impossibile. Sulla formazione professionale (“Training” ossia la categoria 2 delle Labour Market Policies) la gran parte dei dati di spesa e partecipazione per l’Italia è mancante. Per chi avesse voglia di approfondire è sufficiente andare a vedere nel data base della DG Employment [2] che oggi colleziona i dati relativi alle politiche del lavoro e cercare voce Training. Ovviamente si tratta di una vera e propria lacuna che testimonia, tuttavia, lo stato dei nostri sistemi di informazione che non ci consentono confrontare la nostra capacità di offerta formativa con quella della Francia della Germania [3] .
Ma quale è allora la dimensione dell’offerta di formazione professionale regionale riservata a chi è registrato ai servizi pubblici per il lavoro? Per le ragioni suddette non è facile dirlo. Ci vengono in aiuto i dati ISTAT tratti della rilevazione continua delle forze di lavoro da cui risulta ad esempio che nel 2018 le persone in cerca di lavoro che hanno dichiarato di aver frequentato un corso di formazione professionale riconosciuto dalla Regione e che ha rilasciato una qualifica professionale sono circa 214 mila (sono ovviamente esclusi coloro che sono iscritti ad un corso di istruzione scolastico, universitario, accademico e ai corsi di istruzione e formazione professionale IFP,IFTS, ITS). Di questi 79 mila sono del nord, 44 mila risiedono al centro e 92 mila nel mezzogiorno. Ad onor del vero nel valutare questi dati occorre cautela. Innanzi tutto, perché la fonte è un’indagine campionaria e quindi non si tratta di dati registrati amministrativamente.
In secondo luogo, perché l’indagine rileva ciò che le persone dichiarano e per molti non è facile stabilire la natura del corso frequentato (la nozione di qualifica è restrittiva in quanto molte regioni attestano la partecipazione al corso ma non rilasciano qualifiche mentre il termine “riconosciuto” può voler dire anche che il corso è a pagamento ma viene riconosciuto dalla Regione). Comunque quello che sappiamo è che nelle tre circoscrizioni i disoccupati nel 2018 erano circa 2,7 milioni di cui 847 mila nel Nord, 517 mila nel centro e 1,3 milioni nel mezzogiorno a cui si aggiungono una parte dei beneficiari di reddito di cittadinanza che pur essendo inattivi dovranno affrontare il percorso di politiche attive.
In questa prospettiva di analisi l’offerta, da un punto di visata meramente quantitativo appare decisamente debole soprattutto nel mezzogiorno. E sebbene non sia possibile valutarne la qualità numerosi indizi ci dicono che sia assai poco allineata alle esigenze delle imprese. Ad esempio, seguendo i dati che ci fornisce sistematicamente il Sistema Informativo Excelsior sappiamo che molti dei profili professionali richiesti dalle imprese sono di difficile reperimento. Circa il 40 % dei profili artigiani nell’industria alimentare, del legno, del tessile e della pelle sono di difficile reperimento, cosi come gli operai specializzati nella meccanica di precisione. Nel 30% dei casi sono particolarmente difficili da reperire i conduttori di veicoli e macchinari per il movimento terra e per la sollevazione e si potrebbe continuare per numerose altre figure dell’industria e dei servizi. Si tratta di profili che con un corso di formazione qualificante e con una adeguata formazione on the job potrebbero essere realizzati, rispondendo così alle esigenze sempre più pressanti del nostro comparto produttivo. Certo, è essenziale che l’offerta formativa sia costruita in strettissimo rapporto con le imprese cosa che accade, a quello che si sa, assai raramente.
Ovviamente non mancano le buone prassi nella costruzione di un più stretto rapporto tra agenzie formative ed imprese. Le sperimentazioni condotte con il sistema duale stanno dando ottimi risultati. Cosi come lo stretto rapporto con le imprese in molti percorsi dell’IeFP (istruzione e Formazione professionale) appare estremamente efficace. Secondo i più recenti dati di INAPP sono oltre 320 mila i ragazzi iscritti molti dei quali una volta raggiunta la qualifica professionale vengono rapidamente avviati a tirocini per poi trovare una collocazione professionale. Ma la vera best practice nel rapporto con le imprese è rappresentata dagli ITS istituti tecnici superiori che, con la formula della Fondazione a cui partecipano le istituzioni educative, le amministrazioni regionale le imprese offrono ai diplomati una opportunità formativa professionalizzante di eccellente livello in alcuni dei comparti produttivi a maggior potenziale di sviluppo.
Il tasso di collocamento di coloro che completano il ciclo biennale è elevatissimo (ampiamente sopra l’80%) fornendo eccellenti prospettive di carriera. Molti ITS, ad esempio, si collocano dentro o a ridosso dei distretti industriali dove stanno nascendo (dal calzaturiero alla logistica) poli formativi che offrono contemporaneamente formazione iniziale per giovani e continua per i lavoratori delle imprese del distretto (in alcuni casi configurate come vere e proprie “accedemy” come nel caso del Politecnico del calzaturiero del Brenta). Il problema semmai è che gli ITS sono pochi. Secondo i dati INDIRE nel 2017 gli iscritti ai 139 corsi erano 3.367 nulla in confronto agli oltre 400 mila di iscritti ai percorsi di formazione terziaria non universitaria a carattere professionalizzante di Francia Germania e Regno Unito.
Anche nella formazione continua riservata ai lavoratori occupati sono stati fatti numerosi passi avanti. Nel rapporto presentato lo scorso anno da ANPAL si registra una crescita rilevante sia nel numero di “imprese formative” sia in termini partecipanti. Basti pensare che nel 1993 la percentuale di lavoratori delle imprese con più di 10 dipendenti che partecipava ad attività formative era del 15 % mentre nel 2015 la percentuale è salita al 46%. Tuttavia, anche nella formazione continua, che nel 2017 ha impegnato fondi per circa 700 milioni di euro[4], restano numerosi nodi da sciogliere come indica un interessante rapporto OCSE [5]che sollecita il nostro paese ad ampliare gli investimenti sulla formazione continua (oltre a quelli gestiti dai Fondi interprofessionali) con particolare attenzione alle piccole e media imprese e soprattutto alla accessibilità ai programmi formativi delle imprese da parte delle categorie di lavoratori con qualifiche più basse correggendo una asimmetria che oggi privilegia i lavoratori con maggiori livelli contrattuali e di istruzione.
Il panorama descritto, quindi, mostra essenzialmente che il tema della formazione professionale, soprattutto quella riservata ai lavoratori disoccupati, merita di essere posto al centro della riflessione istituzionale così come è avvenuto per quello dei servizi per il lavoro, rafforzando gli investimenti ed aumentando il tasso di interconnessione tra agenzie formative e sistema produttivo al fine di rendere sempre più efficace il sistema delle politiche attive nel suo complesso.
(*) L’articolo rispecchia le opinioni dell’autore e non impegna l’ente di appartenenza
Note
[1] Gazzetta Ufficiale n. 181 del 3 agosto 2019, il Decreto 28 giugno 2019 con l’adozione del ‘Piano straordinario di potenziamento dei Centri per l’Impiego e delle politiche attive del lavoro’.
[2] Si veda https://webgate.ec.europa.eu/empl/redisstat/databrowser/view/lmp_expsumm/default/table
https://webgate.ec.europa.eu/empl/redisstat/databrowser/view/lmp_partsumm/default/table
[3] Directorate General for Employment, Social Affairs – Labour market policy Expenditure and participants 2019
[4] ANPAL Rapporto sulla formazione continua 2018 https://www.anpal.gov.it/documents/20126/41923/Comunicato-XVIII-rapporto-formazione-continua.pdf/82fa7141-56dc-41e9-b9af-39339eaf6556
[5] OCSE Getting Skills Right: Future-Ready Adult Learning Systems. http://www.oecd.org/fr/publications/getting-skills-right-future-ready-adult-learning-systems-9789264311756-en.htm
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