Che cosa è cambiato da allora nelle relazioni tra i giovani, la scuola e la famiglia, la Chiesa e la politica in questi 40 anni? Come si sono modificate le loro rispettive identità? Quale di quella realtà si è più rafforzata o indebolita? Possiamo dire che qualcuna di esse ha guadagnato… o che piuttosto hanno perso un po’ tutte?
Come si vede gli interrogativi potrebbero continuare, ma abbiamo l’impressione che non sia corretto confrontare i giovani di allora con i giovani di oggi, la famiglia e la scuola di allora e di oggi, e così pure la Chiesa e la politica, senza tener conto contemporaneamente, e prima di tutto, del clima sociale e dell’atmosfera culturale che si respirava in quel tempo e di quella – certo più realista e rassegnata, forse perfino cinica – che invece si respira oggi in Europa e nel mondo ma in particolare in Italia che è diventata, per eccellenza, il prototipo del “paese in declino”.
Se mettiamo insieme il fenomeno dell’invecchiamento e della denatalità, quello della “casta” e dell’ondata antipolitica, la vergogna dei rifiuti e dell’evasione fiscale, le morti bianche sul lavoro e il clima diffuso di insicurezza sociale, l’intolleranza verso i rom e gli stranieri… fino alla censura autolesionista di alcuni docenti verso il Papa, che ha dovuto lasciar cadere l’invito a recarsi all’Università di Roma. Ecco che il clima sociale nel nostro Paese appare anche oggi di vero sconvolgimento a più livelli, ma forse di segno opposto a quello dominante nel ’68. In ogni caso, siamo di fronte a una pluralità di segnali che inducono a ritenere che i nodi stiano venendo al pettine, che il crac di sistema si avvicini e che prima o poi qualcosa precipiterà.
D’altra parte, un tempo di discontinuità non si manifesta per caso nella storia ma è il risultato della convergenza di tanti rivoli che portano acqua nello stesso bacino fino a farlo tracimare provocando una inondazione che finisce per travolgere un po’ tutti.
Ripensando il ’68, appare chiaro che gli obiettivi polemici della “contestazione studentesca” (come si diceva allora) erano non solo i cosiddetti “matusa” e le istituzioni anacronistiche come: la scuola, l’Università, la famiglia, la Chiesa e la politica “parlamentare”, ma era l’intero sistema internazionale e l’ordine costituito. Ovunque si diffondevano gruppi del “dissenso” e tutto veniva messo in discussione a partire dalle autorità gerarchiche e dai rappresentanti del potere.
Ci fu uno slogan che più di altri ebbe fortuna proprio perché sembrava riassumere tanti fili di protesta sparsi qua e là: “l’immaginazione al potere”. Un’espressione che nella sua ambiguità conteneva sia l’utopia della libera creatività, sia uno spirito di anarchia senza limiti. Se, infatti, al posto del potere si insedia l’immaginazione, è chiaro a tutti che diventa “proibito proibire” e che ogni cosa può essere ritenuta lecita. Ecco, il ’68 fu anche questo, ossia il tentativo di abbattere lo status quo travalicando il senso del limite.
È vero che inizialmente la violenza “simbolica” era di gran lunga prevalente rispetto a quella fisica, materiale o armata. Ma non vi è dubbio che fin dai primi bagliori, il fuoco della rivolta fosse animato da uno spirito di contrapposizione che presto sarebbe degenerato in ostilità e inimicizia.
Dopo la famiglia e la scuola, la Chiesa e le istituzioni della politica, sarebbe anche arrivato il turno della fabbrica, dei padroni, delle forze dell’ordine, dei carabinieri e della polizia (“celerini assassini”!!) e sarebbero apparse le P38.
Non è compito di queste righe andare oltre il ‘68 rievocando l’alleanza tra studenti e operai, l’autunno caldo del 1969, la formazione di movimenti politici extraparlamentari, il farsi strada di una strategia della tensione fino alla nascita delle Brigate rosse all’inizio degli anni ’70. Un decennio buio e luttuoso si stava abbattendo sull’Italia che sarebbe culminato – come tutti sanno – con l’assassinio di Aldo Moro, giusto trent’anni fa.
Qui ci limiteremo a dire che una riflessione sul ‘68 appare oggi non solo opportuna e doverosa, se non provvidenziale, ma che, se vuole essere seria e stimolante, non deve essere banalmente liquidatoria. La lezione che viene dal ’68 ci insegna, infatti, che non esiste un cambiamento profondo senza una qualche radicale discontinuità, ma anche che la ferma rinuncia alla violenza, come anche il senso del limite, non devono mai venire meno se non si vuole sfociare in quel mito dell’onnipotenza che si trasforma presto in una catastrofe per tutti, anche quando si ammanta della migliore utopia.