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"Gli italiani sono stati diffamati, al punto che la folla, aizzata da chi ne voleva l’espulsione, ne ha linciati a dozzine, ma oggi è tempo che l’amore non sia nascosto, ma diventi operoso, vivo e vero". Lo disse con fermezza e risolutezza Santa Francesca Saverio Cabrini, quella suora che nel 1889 raggiunse gli Stati Uniti d’America per assistere gli immigrati italiani che andavano a cercare fortuna oltre oceano.

Era nata nel 1850 nel lodigiano e della sua terra e della sua gente conservò sempre la profonda indole lavoratrice ed uno spirito aperto alla solidarietà ed alla condivisione. Ma fu soprattutto una donna del futuro, capace di intuire le prospettive di emancipazione e di crescita che la democrazia americana poteva rappresentare per quei poveri italiani, incolti e analfabeti ma desiderosi di essere liberi, che lasciavano la miseria delle loro campagne per tentare il sogno americano. Per questo si adoperò per il loro inserimento, non dimenticando mai, però, di proteggere con le unghie e con i denti la dignità profonda di quei poveri, che con disprezzo venivano chiamati Dagos e facilmente indicati come capri espiatori di ogni problema e di ogni tensione sociale. Madre Cabrini fondò asili ed ospedali, orfanatrofi ed ospizi, ma più di ogni altra cosa riconobbe nell’istruzione e nella possibilità di un’occupazione onesta le principali strade per integrare quelle migliaia di disperati che cercavano condizioni di vita più dignitose ed umane. Quello della santa lombarda, divenuta cittadina americana nel 1909 dopo aver attraversato ventotto volte l’Atlantico e due volte le Ande, è una storia tanto sconosciuta quanto straordinaria, la cui lettura tornerebbe utile in questi giorni in cui l’Italia e l’Europa si trovano dalla parte opposta del tavolo della storia. Oggi sembra dimenticata la lezione, neanche troppo remota, dei tanti connazionali che, non più di un secolo, fa tentarono la stessa drammatica via che oggi spinge migliaia di nordafricani. Anche i nostri connazionali venivano messi in quarantena su Staten Island, ammassati in condizioni disumane e spesso accusasti di portare nel nuovo mondo quella delinquenza e quella insicurezza che avrebbe preso il nome di Al Capone o di Luky Luciano. Ma la storia degli italiani immigrati in America non è, grazie a Dio, soltanto storia di Mafia. Accanto ai nomi dei boss, le cui voci vengono ancora fatte risuonare in dialetto siculo o calabrese nelle audioguide di Alcatraz, vi sono i tanti italiani onesti che colsero la propria opportunità e crebbero in fortuna, onestà e laboriosità. Come non citare Fiorello la Guardia e Mario Cuomo, Nancy Pelosi e Jhon Podesta, Rodolfo Valentino e Dino De Lautremtis, Antonio Meucci ed Enrico Fermi. Come non pensare ad un Giuseppe Garibaldi che, esule negli Stati Uniti, si guadagnava da vivere facendo candele insieme a Meucci? Dall’arte alla scienza, passando per la politica, non c’è campo della vita sociale americana in cui qualche italiano non si sia distinto. Certo, tutto questo grazie al genio personale e culturale che li contraddistinse, ma anche grazie a politiche lungimiranti di integrazione che quelle genialità seppero riconoscere e valorizzare. E anche grazie a figure luminose, come quella della Cabrini, che seppero dedicare la propria vita ad una modernità certamente difficile da comprendere, ma che altro non era se non l’applicazione di quella virtù cristiana di carità e di quei valori civici di accoglienza e solidarietà propri della tradizione del popolo italiano. Dove sono finite oggi queste risorse morali? Come possiamo tollerare che davanti a una “rivoluzione” sociale e culturale che spinge migliaia di uomini e donne del nord Africa a sfidare il mare e la morte, la delinquenza e la miseria per offrire ai propri figli un domani di serenità e di pace l’unica risposta delle Istituzioni italiane sia il “fuori dalle balle” di matrice leghista? Veramente siamo così ottusi dal credere che ripetere questo mantra, o illuderci di renderlo concreto con una pattuglia di carabinieri in più sulle strade possa fermare la storia dei popoli? La storia dei popoli non si ferma, può soltanto essere governata nel tentativo di renderla il più possibile rispondente a quei criteri di umanità e di giustizia che sono universali; validi oggi come ieri, nell’Atlantico come nel Mediterraneo. O i nostri governanti, italiani ed europei, capiranno questo, o si consegneranno ad un duello, quello tra chi, spinto dalla disperazione e dalla speranza, vuole sopravvivere e chi, intimorito dalla paura di perde il proprio privilegio, vuole egoisticamente resistere. Uno scontro, però, che non potrà che vederci sconfitti.

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