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I recenti fatti di Rosarno interrogano la coscienza civile e cristiana degli italiani perché trascendono la dimensione regionale e strettamente locale. Nel groviglio degli avvenimenti sono coinvolti tutti: i politici nazionali, gli amministratori locali, i cittadini di Rosarno, gli stessi immigrati.

In un fazzoletto di terra, un pugno di cittadini è divenuto la metafora di un Paese intero perché rappresenta in maniera drammatica tutti i limiti, le debolezze e anche le virtù, che caratterizzano la società italiana. Forse la cittadina calabrese non ha la consapevolezza di portare su di sé questo grave carico simbolico e non sarebbe neppure corretto attribuirle l’intera responsabilità. È avvenuto nel centro calabro, ma poteva avvenire in qualunque altro posto dell’Italia. Forse sono stati gli spari sugli immigrati e la loro successiva reazione a rendere singolare la vicenda, ma i contorni e le motivazioni che l’hanno fatta esplodere appartengono alla generalità dei cittadini italiani e ad una grande quantità di territori della penisola, al sud come al nord. Certamente non è la totalità degli italiani a nutrire avversione verso gli immigrati. Esistono molte iniziative promosse in favore di essi, organismi religiosi e laici sono attivamente schierati dalla loro parte. Ma quello che colpisce in questa, come in altre simili situazioni, è il fatto che si verifica una sorta di coalizione e tutto concorra a fare apparire la solidarietà un fattore emergenziale e, comunque, con aspetti equivoci, se non proprio distorti. La solidarietà è il “pannicello caldo” che non va al fondo del male da curare e non  è in grado di saldare alleanze perenni tra soggetti diversi e contrapposti. Essa invece ha il potere di far transitare l’io egoistico verso il noi della condivisione  e assicurare ai membri di un comunità che i loro destini sarebbero legati indissolubilmente legati in un inintelligibile noi.  Nei fatti di Rosarno la vera sconfitta è la solidarietà e lo spirito solidale che rafforza il bene comune. La stessa lodevole prestazione di gesti solidali nei confronti dei deboli probabilmente non riesce ad esprimere pienamente una cultura diffusa di solidarietà. Perché ciò avvenga la solidarietà deve costituire il patrimonio personale di ognuno; deve diventare “politica” e raggiungere i meccanismi più profondi del vivere sociale e comunitario. Le definizioni sociologiche della solidarietà “organiche” e “meccaniche” (Durkheim) non sono più in grado di descrivere in maniera reale, dinamica ed efficace la sua capacità di tenere insieme le diverse parti della società. La ‘meccanicità’ della solidarietà, che caratterizza i gruppi primari e le piccole comunità, si è resa visibile nel ‘far quadrato’ dei cittadini di Rosarno per difendere il proprio lavoro, il proprio paese, le proprie donne e bambini. Ma per gli altri, per gli estranei, per gli stranieri non c’è spazio solidale. Per loro neppure la solidarietà ‘organica’ fondata sulle leggi, sui rapporti codificati e sull’organizzazione sociale riesce a fare da scudo. In questo modo solo la legge della forza può garantire l’ordine sociale e consentire una pacificazione dei rapporti. Questo è avvenuto a Rosarno: la comunità cittadina ha sempre considerato estranei e diversi gli immigrati; ritenuti funzionali alla piccola economia locale, buoni da sfruttare per i lavori agricoli, ma non li ha accolti come parte della comunità, si direbbe oggi, non li ha integrati: fino a respingerli e a volerli cacciare con la violenza delle armi. La massa dei cittadini, anche quelli che avevano mostrato ‘pietà’ nei loro confronti con atti di solidarietà (materiale), li ha lasciati soli e ha solidarizzato con i ‘propri’ concittadini partecipando, forse, anche alla caccia dei “negri”. Anche la solidarietà (organica) della società non si è dimostrata presente: sfruttamento nel lavoro, indisponibilità di alloggi dignitosi per vivere e riposare. E soprattutto leggi inique che non solo non rendono possibile l’uscita dalla clandestinità, anzi la rendono ‘criminale’ e, perciò, da perseguire e reprimere. La nostra società non ama la diversità e non accoglie i diversi. Le politiche di welfare che nel tempo gli Stati hanno elaborato sono anguste e sempre più subalterne alle esigenze economiche e alle ‘compatibilità’ di bilancio. In un modo o in un altro, le antiche politiche liberiste –quelle del mercato e delle sue leggi – tentano in ogni modo e con pervicacia di limitare, ridimensionare e, se possibile, cancellare i sistemi del welfare. La solidarietà viene declassata ad assistenzialismo di un “capitale benevolo”. La globalizzazione e la crisi economico-finanziaria da essa generata concorre a rendere la società più chiusa negli egoismi e nell’affannata ricerca del particulare in nome della difesa di identità ormai perdute o, comunque, mischiate e meticciate con altre. Più o meno consapevolmente, questo è lo scenario in cui si è svolto il dramma di Rosarno. Che è il dramma della nostra società all’interno della quale i rapporti tra i soggetti sono sempre più sfilacciati e ognuno tende a rinchiudersi nella torre del proprio io. In questo contesto non meraviglia che possano dominare le uniche “solidarietà” della ‘ndrangheta, fondate su una sorta di familismo che si regge su una forte appartenenza subalterna e sulla violenza e che persegue unicamente l’obiettivo degli interessi personali e/o di gruppo. La società “civile” – quando c’è e quando ‘civile’ lo è- appare timida e incapace di fare sentire la voce forte di cittadini organizzati per l’interesse generale e il bene comune. La società civile si pone come giudice e come critica del potere politico svolgendo una preziosa funzione ‘pre-politica’. Ma a condizione che pensi, si muova ed operi in piena autonomia. La società civile affranca il privato dalla dimensione individualistica e strettamente privatistica. Essa è una risorsa per la democrazia per il fatto che al suo interno si colloca una molteplicità di appartenenze autonome e con capacità di autogestione. Ma in particolare il fondamento della democraticità della società civile consiste in un insieme di istituzioni dei diritti fondamentali, il cui riconoscimento consente di superare la visione puramente privatistica della stessa società civile. Tale riconoscimento fa perno su un esplicito riferimento e richiede una esplicita condivisione di valori universali e di regole condivise. La società civile ha bisogno di nascere da una consapevolezza di autonomia, ma si sviluppa e cresce quando la medesima autocoscienza individuale sfocia in quella collettiva e limita il proprio spazio di azione in favore di una appartenenza più grande. La società civile è “una parte” della società, ma costituisce un insieme di valori, di norme, di stili di vita e di relazioni che servono a raccogliere e a plasmare l’intera vita sociale. Probabilmente a Rosarno –come forse in gran parte dell’Italia – la consapevolezza di una società civile attiva ed autonoma stenta a crescere e a manifestarsi. In tale contesto è difficile parlare di società solidale, come pure di società democratica.  Il deficit di solidarietà si intreccia con l’altro grave deficit di democrazia. La democrazia è la forma più alta di solidarietà. Perché nella democrazia si realizzano pienamente i diritti di libertà e di uguaglianza, la partecipazione al bene comune prima ancora che alla gestione della ‘cosa pubblica’. La dignità di ogni uomo riceve nella democrazia il giusto riconoscimento. Lo Stato di diritto è un processo –il processo democratico- che con le leggi, sempre adeguate al cambiar dei tempi e dei bisogni dei cittadini, garantisce i diritti di tutti. Molti osservatori affermano che lo Stato di diritto a Rosarno, in Calabria, nel Sud, non ci sia; al suo posto regna la legge del più forte (‘ndrangheta e mafia); il lavoro, la salute, i trasporti sono diritti di tutti. Invece i lavoratori devono sottostare a condizioni di lavoro senza tutela, la sanità non ‘cura’ la salute dei cittadini ma ‘si cura’ degli affari dei pochi politici e professionisti, i trasporti (treni e strade) sono perenni aspirazioni sostenute da perenni promesse. A Rosarno (ma non solo), ai diversi, ai “negri” non è consentito essere ‘cittadini’. Benedetto XVI nella Caritas in Veritatern

afferma che “ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione” (62). Il riconoscimento della cittadinanza è il presupposto della democrazia e la solidarietà ne appare lo strumento. La cittadinanza moderna non si esaurisce nel solo riconoscimento dei diritti, ma ne richiede la consapevolezza della titolarità e la possibilità della loro esigibilità. Questa  cittadinanza della modernità (o della postmodernità) non può essere basata sulla semplice “appartenenza” ad un dato territorio (città, nazione), bensì su un diritto, o su un insieme di diritti, fondati sull’essere persona, sul rispetto dell’appartenenza ad un gruppo, ad una etnia, ad una religione. La cittadinanza è nello stesso tempo la coniugazione dei diritti con il principio di responsabilità, con la solidarietà, con l’essere partecipi alla costruzione del bene comune. L’esito della ‘coniugazione’ di queste due esigenze di cittadinanza è la “democrazia solidale”, che perviene e si stabilizza nella solidarietà condivisa. I ‘fatti’ di Rosarno non onorano  la democrazia e non testimoniano la solidarietà. I cittadini sono strumenti e vittime allo stesso tempo di tale degrado. La solidarietà non ha altro termine che la democrazia. Una solidarietà senza democrazia è mero assistenzialismo; una democrazia senza solidarietà è un vuoto guscio formale ed una effimera caricatura di procedure. Rosarno è divenuta, suo malgrado, metafora del Paese. Non vorremmo che, archiviate le vicende della cittadina calabrese, si rimanesse in attesa di vicende per potere tornare a parlarne…inutilmente.

rn

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