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Quando discutiamo il tema dei diritti culturali siamo certamente in presenza di un variegato insieme di fenomeni la cui connessione l’uno con l’altro risulta essere di difficile praticabilità – questioni di genere, di autodeterminazione, di etnicità, per fare qualche esempio.

Tuttavia, ponendo il nesso tra diritti culturali e globalizzazione diventa doveroso indirizzare la nostra attenzione sul tema dei processi migratori internazionali. Da questa prospettiva, infatti, il tema riguarda direttamente la differenza culturale, l’eterogeneità che tale processo trascina con se, rompendo gli schemi di una collettività basata essenzialmente sulla presunta omogeneità della cultura nazionale di appartenenza.
 
La differenza culturale (e i diritti connessi: religiosi, associativi, di rappresentatività), frutto di un processo di cambiamento strutturale della nostra società, è un tema complesso la cui riflessione coinvolge diverse discipline. Per questo motivo intendo giustificare la scelta del fenomeno immigrazione quale oggetto dell’articolo e le odierne democrazie costituzionali quale scelta di contesto sposando l’esigenza manifestata dal Prof. Wieviorka di distinguere i diversi contributi disciplinari che gravitano intorno al tema dei diritti culturali. Una maggiore consapevolezza e conoscenza di queste differenti sfere di indagine consente di evitare il prevalere di posizioni ideologiche, quand’anche il frequente rifiuto alla trattazione di questi argomenti. Risulta inoltre indispensabile per la sociologia, parafrasando Simmel, prendere in considerazione i presupposti elaborati dalle altre discipline al fine di adottare una strategia di ricerca meglio orientata.
 
Abbiamo dunque un approccio derivante dalle scienze giuridiche e politiche teso all’analisi della reale struttura politico-legislativa, un approccio filosofico-normativo, ovvero della costruzione di una prospettiva di integrazione nel senso del “dovrebbe essere così” ed una prospettiva sociologica indirizzata all’analisi dell’agire sociale culturalmente connotato e dell’interazione dei diversi attori presenti all’interno della collettività.
 
Nella prospettiva giuridico-politica è sicuramente doveroso sottolineare il sostanziale indebolimento del carisma e del potere degli Stati nazionali di fronte ad importanti sfide imposte dalla globalizzazione, prima fra tutte l’odierna configurazione del rapporto tra Stato e globalizzazione dei mercati finanziari e dell’economia reale (Giddens, 1994). Se mi è consentito, in questo frangente di difficoltà dei mercati, vorrei sottolineare la magistrale riflessione di Georg Simmel (Filosofia del denaro, 1900) sulla centralità dello scambio, e quindi dell’interazione, nella produzione del valore, non già nel tempo medio di lavoro o nella scarsità di un bene (l’attuale ed epocale crisi non è forse il frutto di una sostanziale ideologicizzazione della cultura dello scambio in una totale assenza del fondamentale ruolo di garanzia da parte dello Stato?). Tuttavia e nonostante questo tipo di dinamiche, credo sia indispensabile sottolineare il ruolo forte dello Stato di fronte a quelle persone che, in carne ed ossa, sono coinvolte nei cosiddetti processi migratori. Lo Stato in questa prospettiva detiene l’opportunità politica di aprire o meno i rubinetti dell’inclusione giuridica trasformando, come scrive il Prof. Dal Lago, delle persone in non-persone e viceversa. Un esempio paradigmatico è quello del decreto flussi, strumento legislativo finalizzato alla regolazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro straniero; un tipo di intervento che dovrebbe scuotere la coscienza di un qualsiasi intransigente teorico liberale, laddove per liberale intendo colui il quale ha una concezione dello Stato quale garante, non già regolatore dei rapporti tra i privati. Non per affermare che sia sbagliato, ma semplicemente per evidenziare la mano forte dello Stato di fronte a queste persone che, citando ancora Simmel, “arrivano oggi, per restare domani”.
 
In effetti, proprio la dimensione di questo insieme di persone – in Italia quasi quattro milioni gli stranieri regolarmente soggiornanti, producono il 7% del Pil, pagando le tasse, hanno alti tassi di natalità, mandano i loro figli a scuola – ci pone di fronte alla realtà della differenza culturale ed al problema filosofico normativo di come riconoscere tale differenza nel quadro di una maggiore effettività di quel corpus di valori di eguaglianza e libertà che rientrano nella nostra cultura giuridica. Da questo punto di vista, credo sia indispensabile sottolineare il fatto che l’effettività dei diritti culturali non può essere concepita, per dirla con Durkheim, alla stregua di un “fatto sociale esterno e coercitivo all’individuo” (come può essere una sentenza, una sanzione o un dovere), bensì deve necessariamente essere il frutto di una consapevolezza del possibile esercizio della propria identità all’interno della cultura giuridica nella quale l’individuo, il gruppo o la comunità si sono inseriti. Tale libertà culturale, però, non può che realizzarsi ex post una inclusione giuridica ed una integrazione sociale, in termini politici ed economici. Per questo nell’ambito dell’amichevole disputa dottrinale tra la posizione di Jurgen Habermas e quella di John Rawls, al fine di determinare la corretta proposta normativa, condivido maggiormente la prima secondo cui la giustizia sociale e l’equità non possono essere il fine, il bene ultimo di una teoria della giustizia, bensì esse stesse rappresentano il presupposto fondamentale per l’esercizio e la partecipazione ai processi discorsivi della democrazia. Per fare un esempio, prima ancora dell’effettivo esercizio di un diritto molto importante, quale è quello della libertà religiosa e, probabilmente, anche al fine di renderlo possibile, grande rilievo dovrebbe assumere la possibilità, da parte di una particolare comunità, di vedere espresso o di esprimere il proprio punto di vista nell’ambito della sfera pubblica.
In questo contesto, un ruolo importante dovrebbe assumere la sociologia nel rilevare quelle modalità di agire sociale culturalmente connotato che spesso, attraverso vecchi e nuovi strumenti della comunicazione, cercano di ritagliarsi uno spazio nella sfera pubblica. Altrettanto rilevanti sono quelle modalità di interazione tra differenti prospettive e identità, cercando di rilevare, da un lato, quelle forme di cooperazione sociale tra differenti prospettive che, molto spesso, realizzano l’azione positiva ed inclusiva del dialogo, rendendo altresì possibile l’esercizio di molti diritti fondamentali – e il caso di molte parrocchie (nei casi, a me noti, di Roma) che, in questi ultimi anni, oltre ad assolvere un fondamentale ruolo di assistenza nelle prime e fondamentali necessità, hanno messo a disposizione locali per l’esercizio e la professione della fede ortodossa agli stranieri provenienti dai Paesi dell’Est europeo – dall’altro, anche e necessariamente, tutte quelle forme di tensione sociale e conflittualità, come evidenziato da molti episodi che emergono nel dibattito pubblico, le quali si sviluppano sulla base di una disputa identitaria quanto mai lesiva della convivenza civile.
 
 
Spunti bibliografici:
 
Dal Lago, A.,
Non-Persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, 1998, Milano, Feltrinelli;
Giddens, A.,
Le conseguenze della modernità, 1994, Bologna, Il Mulino;
Habermas, J.,
Teoria dell’agire comunicativo, 2008, (1981), Bologna, Il Mulino;
Rawls, J.,
A theory of justice, 1971, Harvard, Harvard University Press.
Wieviorka, M.,
La differenza culturale, 2002, Roma-Bari, Laterza.
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