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Il diritto al ricongiungimento familiare rappresenta lo strumento principale attraverso il quale, all’interno delle democrazie costituzionali, il fenomeno migratorio ha radicalmente mutato la sua conformazione. Da fenomeno provvisorio, di primo approdo, essenzialmente legato all’inserimento nel mercato del lavoro, a realtà in grado di imprimere cambiamenti strutturali al tessuto sociale dei cosiddetti Paesi di accoglienza.

Il quadro normativo italiano
Anche se la l. n. 39/90, con l’istituzione del permesso di soggiorno, in quanto documento rilasciato dall’autorità amministrativa, già considerava la motivazione familiare tra le fattispecie che legittimano la permanenza all’interno dello Stato italiano, il vero e proprio diritto dello straniero a richiedere il ricongiungimento ai propri familiari viene esplicitamente introdotto e regolamentato dal d. lgs. n. 286/98 (il cosiddetto Testo Unico della disciplina sull’immigrazione, artt. 28-30): “Il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri è riconosciuto, alle condizioni previste dal presente Testo Unico, agli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi”, (art. 28, com. 1, d. lgs. n. 286/98).
L’introduzione di tale istituto, considerando il valore centrale che la famiglia ha nella Costituzione e nella cultura italiana, ha rappresentato il primo decisivo passo mosso dal legislatore nel tentativo di costruire una concreta politica di integrazione dello straniero regolare. Tuttavia, come è noto, il Testo Unico delle politiche migratorie italiane, lungi dall’essere una pacifica tela sulla quale apporre i necessari interventi, ha, più volte, conosciuto modificazioni diametralmente opposte anche allo spirito di integrazione sociale che muove questa parte della disciplina. Così è stato nel caso della l. n. 189/02, tuttora in vigore: alla ratio repressiva e di contrastosi sono ispirate, altresì, le modifiche introdotte in materia di ricongiungimento familiare, di matrimonio con stranieri e di minori, ovvero di quella parte del T.U. esclusivamente rivolta a quegli immigrati che riescono a costruire, tra le difficoltà e le burocrazie del nostro Paese, un percorso di vita legalmente riconosciuto. Infatti, per quanto riguarda il ricongiungimento familiare, esso non è più previsto (come lo era nella precedente formulazione) per i parenti entro il terzo grado inabili al lavoro, ma solo per i figli maggiorenni dimostrati a carico, “qualora non possano per ragioni oggettive provvedere al proprio sostentamento a causa del loro stato di salute che comporti invalidità totale”, (art. 23, com. 1, l. n. 189/02); condizioni restrittive sono state imposte anche per quanto riguarda i genitori a carico, non dovendo avere, questi ultimi, altri figli nel Paese di origine o provenienza.
Dunque, con la motivazione della “urgente necessità di porre un freno alle numerose pratiche elusive” venivano rigorosamente ridisegnati i confini entro i quali uno straniero regolare, inseritosi come lavoratore nella nostra società, poteva e può oggettivamente ricostituire il proprio nucleo familiare.
La vicenda legislativa riguardante il diritto al ricongiungimento familiare vive un suo ulteriore passaggio con l’emanazione del d. lgs. n. 05/07, in attuazione dei parametri imposti dalla direttiva n. 2003/86/CE del Consiglio. Sulla base di questi, le principali innovazioni hanno riguardato, oltre ad un maggiore ed opportuno controllo sulla eventuale pericolosità sociale delle persone in entrata, confermando l’orientamento comunitario di sempre maggiore attenzione sulle questioni riguardanti le cosiddette frontiere esterne, anche la sussistenza di determinati requisiti da parte dello straniero residente che vuole esercitare il diritto al ricongiungimento (requisiti minimi di abitazione e reddito, tra l’altro già previsti nell’originaria formulazione del d. lgs. n. 286/98).
 
Il quadro socio-statistico
Il dato pubblicato dall’ultimo Dossier statistico della Caritas/Migrantes (2007) ci parla di 3.700.000 circa stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Di questi minori, quasi 700.000 (18,5% del totale). Tale valore viene, successivamente, scorporato secondo le motivazioni che legittimano il soggiorno: 2.083.470 (56,5%) per lavoro, 1.312.587 (35,6%) per motivi familiari, 107.427 (2,9%) per studio, 70.152 (1,9%) per motivi religiosi ed altri (3,2%).
La distribuzione della presenza regolare di immigrati sul territorio, a seconda delle motivazioni che legittimano il soggiorno, è in grado di fornire un decisivo contributo chiarificatore sulla dinamica e sul grado di sviluppo raggiunto dal fenomeno in questione negli ultimi anni. Secondo il modello migratorio formulato in sociologia, osservando quei Paesi industrializzati che, da più decenni, sono soggetti alla spinta dei movimenti migratori, ad una prima fase di insediamento caratterizzata dall’afflusso considerevole di forza-lavoro, prevalentemente maschile e in età produttiva, fa seguito, con le dovute sfumature, un afflusso diversificato in base alle variabili sociologiche, definito di inserimento nel tessuto sociale, prevalentemente caratterizzato dalla formazione dei primi nuclei familiari e dalle prime generazioni nate nel Paese di accoglienza. Dall’inizio degli anni ottanta fino alla seconda metà degli anni novanta, la popolazione straniera in Italia era prevalentemente costituita da soggiornanti per motivi di lavoro, ovvero, singoli uomini che avevano, molti temporaneamente, lasciato la loro famiglia al Paese di origine. A partire dalla seconda metà degli anni novanta, ha seguito una seconda fase in cui hanno preso avvio in modo consistente i ricongiungimenti familiari e la stabilizzazione dei rispettivi nuclei, fenomeno che ha posto le premesse per il sorgere di nuove generazioni.
Il dato relativo alla presenza straniera per motivi familiari (1.312.587), pur non essendo costituito esclusivamente dal numero dei titolari del permesso/carta di soggiorno (nella stima sono compresi i minori di 14 anni che non sono titolari di un proprio documento), costituisce un elemento fondamentale nell’aiutarci a rimarcare l’ormai raggiunta dimensione strutturale del fenomeno, tale cioè da implicare radicali processi di cambiamento nell’assetto sociale e culturale italiano.
 
Ulteriori sviluppi e conclusioni
Nel quadro di un complesso sistema di misure di contrasto all’immigrazione, messo in atto dall’attuale Governo (alcune delle quali hanno registrato forti critiche sia nell’ambito istituzionale/accademico che in quello cattolico), è di pochi giorni fa la notizia della presentazione di tre bozze di decreti legislativi, uno dei quali riguardante proprio il ricongiungimento familiare. La vicenda ha fatto molto scalpore per il precedente, all’interno della prassi di iniziativa legislativa da parte del Governo, di presentare le bozze al giudizio della Commissione, prima che al Parlamento, nel tentativo di ricucire un proficuo dialogo istituzionale, successivamente agli strappi avvenuti con gli organi U.E. in merito alla vicenda dei Rom.
Nello specifico, la previsione è quella di introdurre ulteriori limiti di reddito e la formalizzazione del test del Dna a spese del richiedente (che, di fatto dal 2001, già un migliaio di stranieri l’anno, perlopiù bambini, espletano) per verificare l’effettività della parentela in caso di incertezza. Certamente, alla luce della normativa attualmente in vigore e delle ulteriori proposte, non si tratta di misure che vanno nella direzione delle molteplici ed autorevoli voci che, in questi ultimi anni, hanno affermato come una effettiva e rigorosa politica di contrasto alla clandestinità/irregolarità, soprattutto quando associata a fenomeni di criminalità, debba, comunque, essere bilanciata da una altrettanto effettiva politica di considerazione ed inclusione di quella porzione rilevante di immigrati che, quotidianamente ed alla pari degli altri, contribuisce regolarmente alla crescita del Pil ed al benessere del sistema Paese.
 
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