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Le parole pronunciate dal Santo Padre giovedì scorso, di fronte ad amministratori della città di Roma, della Provincia e della Regione, hanno ricevuto una risonanza non inaspettata.

Esse infatti toccano direttamente situazioni ed esperienze di degrado e malessere sociale presenti sotto gli occhi di tutti i romani, in forma spesso tutt’altro che blanda, discreta o ‘invisibile’.

Benedetto XVI ha ricordato, tra le altre cose, come l’ evento tragico dell’uccisione di Giovanna Reggiani, avvenuto a Roma due mesi e mezzo fa, abbia "posto bruscamente la nostra cittadinanza di fronte al problema non solo della sicurezza, ma anche del gravissimo degrado di alcune aree di Roma". Le parole “gravissimo degrado” pronunciate dal Papa anche in veste di Vescovo di Roma, hanno richiamato in modo particolare l’attenzione dei media, dando vita, specie in un primo momento, a riflessioni e interpretazioni trasversali prevalentemente basate su logiche di schieramento: quasi che esse fossero una “fanfara di guerra” sul piano dei rapporto istituzionali con il comune di Roma o il venir meno della proficua collaborazione della Chiesa con l’amministrazione locale sui temi sociali.

In questo ambito, poco ci si è soffermati sul legame espressamente richiamato tra la sicurezza e condizioni sociali che garantiscano la dignità della persona. Il Pontefice ha parlato di “un’opera costante e concreta, che abbia la duplice e inseparabile finalità di garantire la sicurezza dei cittadini e di assicurare a tutti, in particolare agli immigrati, almeno il minimo indispensabile per una vita onesta e dignitosa".

Durante il discorso, Benedetto XVI ha toccato i punti centrali alla base delle situazioni di malessere sociale presenti nella capitale e non solo: “l’aumento del costo della vita, in particolare i prezzi degli alloggi, le sacche persistenti di mancanza di lavoro, e anche i salari e le pensioni spesso inadeguati rendono davvero difficili le condizioni di vita di tante persone e famiglie.”

Il discorso del Papa si sofferma su una pluralità di problemi annosi, parte dei quali ha avuto una maggiore visibilità, non soltanto mediatica, nel corso dell’anno appena trascorso. Dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani c’è stato lo smantellamento di alcune baracche pressi nell’area di Tor di Quinto e di Ponte Mammolo e l’allontanamento di centinaia di persone da rifugi di fortuna sulle rive del Tevere. Si è trattato, agli occhi di molti cittadini , di un provvedimento anche simbolicamente “liberatorio” nei confronti di quelli che si ritengono focolai di problemi e di criminalità giunti a livelli intollerabili. Si è visto nelle settimane successive l’insufficienza dei soli provvedimenti di “bonifica” delle area sgomberate e dell’adozione di misure ordine pubblico nel misurarsi con un problema di dimensioni ancor più ampie e di natura meno semplice di quanto talora appaia a prima vista.

A Roma esiste una miriade – non facilmente censibile – di quelli che si chiamano a volte insediamenti ‘informali’ o ‘spontanei’: talora semplici rifugi ricavati negli interstizi della città , altre volte assumono le dimensioni di vere e proprie baraccopoli; essi richiamano a un problema sociale in parte diverso a quello legato ai cosiddetti campi rom a cui sono spesso legati per le condizioni di precarietà e miseria e a volte – ma non sempre – per la localizzazione. Entrambi questi fenomeni richiedono una risposta all’insufficienza delle politiche abitative adottate in Italia e, nello specifico nella capitale.

Rispetto ai rom, che anche al di fuori degli insediamenti attrezzati e censiti danno in genere vita a forme di organizzazione su base comunitaria, molte altre persone, provenienti soprattutto dall’Europa dell’Est (Ucraina, Moldavia, Romania) si trovano spesso a vivere in genere come persone ‘sradicate’ da qualsiasi appartenenza comunitaria, familiare. Sono portatori sempre di situazioni di disagio, ma, molte volte, non di devianza. 

I posti in cui vivono sono insediamenti a volte molecolari, parcellizzati, ma altre volte ben visibili. E’ il caso di quelli tuttora presenti lungo le rive del Tevere, sotto forma di tende o baracche. Questi posti ospitano alcune migliaia di persone che svolgono un lavoro, spesso precario, nel settore edilizio. 

Queste persone, che nel loro Paese di origine hanno situazioni abitative assolutamente ordinarie seppur modeste, non possono semplicemente permettersi di accostarsi all’ altissimo costo degli affitti a Roma. L’alternativa alla loro condizione è spesso quella, vessatoria e talora irraggiungibile, recentemente emersa nelle cronache dei giornali : affitti in nero che arrivano fino a 800 euro a persona, in appartamenti iper-congestionati ed insalubri.

Il problema degli affitti – come parte del problema della casa – ha ormai i connotati di un’emergenza sociale. Le spese di affitto di un abitazione nella capitale sono ormai spesso inavvicinabili in rapporto alle esigenze vitali di un famiglia monoreddito; in generale rappresentano una voce di spesa che ha un incidenza schiacciante rispetto al reddito medio, su proporzioni nettamente superiori al resto delle capitali occidentali.

In questa situazione, le stime dell’Unione inquilini parlano della necessità, a Roma, di 100.000 abitazioni a canone popolari. Una delibera del comune ne prevede 20.000 per il 2010. I dati reali parlano di soli 190 appartamenti popolari assegnati nel 2007.

Da questi dati si desume l’urgenza di un cambio di rotta sulle politiche abitative e l’assoluta inadeguatezza della situazione presente rispetto alle esigenze reali. E’ un tema rispetto al quale sia le amministrazioni locali sia le istituzioni statali hanno una responsabilità primaria ed ineludibile.

Le parole del Santo Padre ci riportano a un contesto quello romano, in cui si disegna un distacco tra un’immagine, a volte oleografica, di un miglioramento ‘lineare’ nelle condizioni cittadine nell’ultimo quindicennio e l’esistenza di situazioni sociali di persistente e anzi crescente problematicità. Si tratta, nel caso dell’emergenza abitativa, un fenomeno di cui gli aspetti più visibili nelle plaghe del paesaggio urbano riportano prevalentemente a un segmento del fenomeno migratorio che ha interessato la capitale negli ultimi anni; ma le cui reali proporzioni interessano, in modi differenti, anche una parte consistente della cittadinanza.

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