Tra tutte le ragioni che possono spingere un essere umano a mettersi in cammino per lasciare la propria terra ed andare altrove ce n’è una che non lascia spazio ad alternative: è la guerra.
Chi ha negli occhi il dramma della guerra, molto spesso è costretto a decidere se restare nella propria terra d’origine ed andare incontro alla morte o mettersi in cammino e sperare la vita. Non si tratta di emigrare in un Paese più ricco con il legittimo desiderio di cercare lavoro e migliorare le proprie condizioni economiche. Qui è la sopravvivenza stessa che è in gioco: chi fugge da una guerra ha visto morire le persone care e avverte quotidianamente il pericolo per la sua stessa vita.
Secondo le ultime stime diffuse dall’UNCHR, l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, oggi sono oltre 70 milioni (un numero mai registrato prima, superiore all’intera popolazione francese!) le persone costrette a fuggire in tutto il mondo a causa di conflitti o persecuzioni di cui sono vittime nei Paesi d’origine. Di queste 25,9 milioni sono coloro che attraversano i confini internazionali assumendo così la condizione di rifugiati, mentre oltre 40 milioni di persone sono sfollati interni.
Per il diritto internazionale, secondo la definizione contemplata dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, “rifugiato” è chi «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato».
In questi casi non c’è alcuna politica “dell’aiutiamoli a casa loro” che tenga. Chi scappa, infatti, una casa non ce l’ha più. Spesso non ha nient’altro che la propria stessa vita, ultimo bene da difendere dalla follia fratricida della guerra, dall’odio delle persecuzioni etniche e religiose, dalle violenze o da altre gravi violazioni dei diritti umani fondamentali.
Un dramma che in Europa, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, non conosciamo più. La guerra, in questa parte del mondo, è ormai solo un ricordo sbiadito dal tempo. Ci sono poi le “guerre degli altri”, quelle che passano rapidamente al Tg, che parlano di luoghi troppo lontani per farci avvertire una stretta allo stomaco e il dovere della solidarietà.
Prestiamo maggiore attenzione ai drammi delle guerre in atto nel mondo solo quando lo spazio tra noi e i fragori dei bombardamenti si riduce. Come in questi giorni in cui l’orrore dell’aggressione militare turca contro il popolo curdo in Siria riempie le pagine dei giornali. E anche in questo caso non facciamo in tempo a commuoverci per le vittime civili dei bombardamenti, a sentire nella coscienza l’eco del dolore di donne e bambini innocenti colpiti dalle armi made in EU, che subito il nostro pensiero corre alle nuove ondate dei flussi migratori, ai numeri in aumento dei richiedenti asilo nei Paesi europei, ai costi dell’accoglienza, ai rischi per la sicurezza nazionale.
Eppure il dramma della guerra in Siria (su cui si sono riaccesi i riflettori dei quotidiani nelle ultime settimane, ma che in realtà dura da ben otto anni!) è solo la punta dell’iceberg. Sappiamo poco, ad esempio, dei drammi umanitari che si consumano nella Repubblica Democratica del Congo, in Camerun, nel Sud Sudan o della fuga in Bangladesh dei rifugiati Rohingya.
Sono ben 30 le guerre oggi in corso nel mondo, cui si aggiungono anche 18 situazioni di crisi, che potrebbero degenerare in uno scontro armato. Si tratta di un dato appena migliore di quello registrato lo scorso anno (nel 2018 erano 34), ma in aumento se confrontato con le guerre annoverate nel Global Peace Index appena dieci anni fa. A scorrere la nona edizione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, appena licenziato dall’Associazione 46esimo Parallelo, in collaborazione con Amnesty International e il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali, si fa presto ad accorgersi che è attualmente in guerra un Paese su cinque.
“Siamo in un mondo in guerra”, ha affermato a più riprese papa Bergoglio, nel suo incessante sforzo di risvegliare le coscienze assopite. Una “terza guerra mondiale”, diffusa a pezzi sul globo terrestre, ma non meno imponente delle precedenti per numero di vittime, massacri, entità delle devastazioni, flussi di profughi e rifugiati.
Dei milioni di uomini, donne e bambini costretti alla fuga solo un numero esiguo raggiunge la “fortezza Europa”. Oltre l’80% dei rifugiati, infatti, sono accolti in Paesi che confinano con il proprio, per lo più Paesi in via di sviluppo, dove i servizi essenziali sono già insufficienti per la popolazione residente e le condizioni di vita restano precarie. Nessuna reale minaccia, dunque, per la sicurezza dei cittadini europei né per le finanze pubbliche degli Stati UE.
Di fronte al dramma umanitario in atto, ad essere seriamente compromessi, in realtà, sono il comune senso di civiltà e il valore stesso della dignità dell’uomo, sui quali si fonda la tradizione giuridica delle democrazie occidentali. Ad essere drammaticamente tradito, nella gestione dei fenomeni migratori e dei rifugiati in particolare, è quello spirito di fratellanza che dovrebbe guidare le azioni reciproche di tutti gli esseri umani, di cui si legge all’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Il Global compact on refugees, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 2018, costituisce un primo parziale argine a questa deriva. Pur privo di forza giuridica vincolante, il documento rappresenta un significativo passo in avanti per assistere le persone costrette alla fuga e le comunità che le accolgono.
Ma limitarsi ad agire sugli effetti delle guerre sarebbe una risposta miope da parte della comunità internazionale. Ciò che occorre, invece, è uno sforzo senza riserve per eliminare eradicare la guerra sin dalle sue cause.
La prevenzione dei conflitti richiede innanzitutto il rafforzamento delle fondamenta stesse della pace, creando – come dichiara l’art. 55 della Carta delle Nazioni Unite – “condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni, basate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli”. Sotto questo profilo il mantenimento della pace, che resta l’obiettivo principale dell’ONU, si pone in stretto rapporto di interdipendenza con la promozione dei diritti umani su scala globale e con la realizzazione del principio di autodeterminazione dei popoli.
Tuttavia le istituzioni, da sole, non bastano. Nell’epoca dell’interdipendenza planetaria, occorre che la pace sia un valore condiviso su di un piano umano e culturale, prima ancora che giuridico o politico. Occorre allora una rivoluzione culturale e uno sguardo nuovo capace di tenere insieme i destini dell’intera famiglia umana.
Senza pace non c’è futuro: dentro e fuori dall’Europa, da ambo le rive del Mediterraneo, in ogni angolo di mondo. Forte di tale consapevolezza e nel solco del magistero pontificio sulla pace, l’Istituto Giuseppe Toniolo, insieme con Azione Cattolica Italiana, Caritas, Focsiv e Missio, ha lanciato la scorsa estate ad Assisi un Manifesto per un futuro di pace, dal titolo Everyday for peace.
Idealmente aperto alla sottoscrizione di tutti coloro che non vogliono rassegnarsi ad una cultura dell’odio e della contrapposizione, dei muri e dei porti chiusi, il documento è un invito ad essere ogni giorno “cittadini responsabili, artigiani di pace e di speranza, pellegrini sulle orme dei testimoni di un’umanità riconciliata”. Un modo concreto per condividere e moltiplicare l’impegno a costruire insieme la pace “nelle città, in Italia, in Europa e nel mondo”.
Tags: Europa guerra pace