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I dibattiti accesi attorno al lavoro “precario” ci debbono far riflettere su aspetti culturali che, a mio parere, sono oggi troppo trascurati. Sono infatti convinto che la grande assente nell’attuale dibattito sul lavoro sia la società civile, la sua natura e il suo ruolo.

La cultura (economia e politica) italiana, ma non solo questa, non “vede” l’economia civile perché non “vede” la società civile. Tutto il dibattito è centrato sul dualismo Mercato (capitalistico) e Stato. Il lavoro, quindi, o lo “dà” la grande impresa, o lo “dà” lo Stato. Non c’è nessuna idea che la società civile possa e debba “inventarlo”. Una cultura che non vede il civile (perché lo confonde con il privato (“comunitaristi”), o con il mercato (da “destra”), o con il politico (“da sinistra”)), non può vedere, comprendere e promuovere l’economia civile (che è l’insieme delle espressioni economiche della società civile).
In realtà, se guardiamo alla storia italiana, dai comuni all’economia civile di oggi, il luogo che ha creato e inventato il lavoro, di ogni tipo, è stato sempre il civile: è l’intreccio di rapporti della società civile, dalla parrocchia alla cooperativa, dalla famiglia alle associazioni cittadine, dove i lavori prima si inventano poi si realizzano. Se invece una società non vede il civile, aspetterà sempre che il lavoro venga o dall’alto (Stato) o dal basso (Mercato), e non dai rapporti tra pari, dalla reciprocità, da me e da te. Sono convinto che sia questa stessa miopia culturale che impedisce all’Italia di vedere la famiglia come soggetto economico e fiscale, e così considerare la spesa per il latte e per i pannolini dei bambini come merci di consumo alla stessa stregua di un videofonino o di un cosmetico anti-rughe. Oppure pensiamo, per un altro esempio espressione della stessa realtà culturale, al fatto che si parli ancora di “pre-politico” per esprimere il civile (laddove, invece, è il politico che va visto come “post-civile”).
Tutto ciò poi si traduce anche in una strana idea della sussidiarietà. Infatti questo principio da alcuni è inteso all’incontrario (“la società civili aiuti-sussidi lo stato a fare ciò che non riesce a fare”); altri invece lo utilizzano per giustificare una “ritirata” (“lo stato si metta da parte e lasci la società alle sue organizzazioni, o magari al mercato”). Ovviamente il principio di sussidiarietà è ben diverso, e recita: “lo stato e il mercato aiutino-sussidino la società civile a soddisfare i suoi bisogni e a realizzare le sue aspirazioni”. In questa interpretazione della sussidirietà, che è quella della Dottrina sociale della chiesa, lo Stato è indispensabile (perché garantisce quell’universalità e quella equità che mancano quando le varie espressioni della società civile sono gli unici attori sulla scena pubblica), come lo è anche il mercato. Ma entrambi sussidiano la reciprocità che si esprime, e non può che essere così, primariamente nel civile. Qualcuno però potrebbe dire: ma non è lo “stato” (dal governo al comune) che conosce e ascolta davvero i bisogni della gente? Certo, ma quelli più semplici, quelli legati agli interessi, o i bisogni di chi sa e può protestare, i bisogni già espressi e capaci di arrivare alla porta del sindaco e bussare. Ma una società decente si gioca sui bisogni non espressi, di chi non parla perché non può parlare (bambini e malati), o non sa parlare (immigrati), o non parla ancora (le future generazioni …). Questi bisogni sono visti solo da cui è prossimo dei portatori di problemi (esistono anche i problemholders, non solo gli stakeholders), da chi, cioè, condivide giorno dopo giorno le stesse esperienze. Le prostitute e i barboni sono ben visibili dai politici di Roma e di tutte le città: ma senza Don Benzi, o altri “carismatici”, che ha “visto” qualcosa di più perché accanto alle vittime, la politica da sola non può offrire nessuna soluzione: gestisce i problemi, si immunizza da essi, ma non li risolve, non li trasforma.
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