La Complessità è un concetto semplice: è la consapevolezza che ogni descrizione del mondo è sempre e soltanto una scelta tratta dal gran numero di quelle possibili suggerite dall’intreccio delle relazioni tra eventi e da ciò che noi consideriamo come “evento”. Non bisogna trascurare la l’importanza del concetto di “fatto”, questione legata alla ben nota tesi di Duhem-Quine: le “teorie” sono architetture che connettono “fatti”, ma i “fatti” sono costruiti ( “fattibili”) in modo da inserirsi come “cardini” nell’architettura teorica. Una modificazione architettonica può dunque cambiare sensibilmente il significato” di un “fatto”.
Esiste un’intera storia di inter-relazioni e trasmigrazioni di metafore tra fisica ed economia: pensiamo al concetto di flusso, volatilità, potenziale, e così via. Questi scambi hanno favorito e sostenuto la formazione di una visione epistemologica comune. Naturalmente non è solo una “questione di termini”: Feynman diceva che tra un secolo l’800 sarebbe stato ricordato più per le equazioni di Maxwell che per i rivolgimenti sociali. Al di là della provocazione, bisogna prendere atto che lo sviluppo delle scienze fisiche e della tecnica ha permesso l’affermazione di quella prima, grande rivoluzione industriale di cui siamo ancora figli, ed orfani. E d’altra parte la fisica è stata per lunghissimo tempo- fino a ieri- un modello di disciplina in grado di fornire definizioni operative dei suoi termini, potenti modelli matematici e dunque analisi e previsioni molto precise. Il fisicalismo è stato, ed è ancora in larga misura, un modello ideale di procedura scientifica, e ha portato a una distinzione tra scienze “hard” e “soft” che oggi si è ampiamente erosa, almeno nella misura in cui si è capito- e lo si è capito proprio con i sistemi complessi- che la scientificità non è necessariamente, e per ogni argomento, una “clonazione” passiva dei metodi della fisica, ma piuttosto una comprensione del mondo basata sull’attività sperimentale. E quando le cose si vanno a guardare davvero, si scopre che non è sempre possibile scrivere eleganti equazioni di evoluzione in grado di dirci cosa succederà al sistema. E’ uno dei temi caldi della fisica dell’emergenza e della teoria del cambiamento che studia proprio quei sistemi in cui non è possibile applicare le condizioni dei sistemi ideali della fisica: vincoli e costituenti ben definiti, conservazione dell’energia, e così via.
Preso atto di una contiguità culturale metodologica (spesso tradotta in condivisione modellistica) non bisogna dunque stupirsi se gran parte del bagaglio concettuale dell’economia classica ha una forte somiglianza con la struttura della fisica classica, e dunque con l’ oggettivismo “ingenuo” della visione meccanica e riduzionista. Proprio come il punto materiale della meccanica classica, l’agente economico è mosso da un insieme di forze il cui obiettivo è realizzare una condizione estremale del gioco di potenziali in campo, come ad esempio massimizzare il profitto. Questo tipo di visione accomuna le due scienze anche nella percezione comune, qualcosa che attraverso un metodo (un occhiale cognitivo rubato a chissà quale prometeo, e riassunto in frasi del tipo “gli scienziati hanno scoperto che…”) ci rivela un modo che “è lì”, indifferente ai nostri desideri e voleri. Se questo è in parte vero per le scienze naturali è più difficile comprendere come ciò sia avvenuto per l’economia che, come direbbe G. B. Vico, è la “nostra natura”. Questa visione “fredda” della scienza e dell’economia va in direzione opposta alla loro più autentica natura: la scienza come espressione di esigenze cognitive ed estetiche profonde, l’economia come festa del mercato e scienza dei desideri umani!
La fisica dei comportamenti collettivi e dell’emergenza ha in ampia misura modificato e attenuato la visione meccanica e riduzionistica del mondo per il semplice fatto che in molti casi è inapplicabile. Gli oggetti non hanno sempre “identità fisse” e sono piuttosto definite dal gioco di interrelazioni con l’ambiente. Cosa può esserci di più semplice di una “particella elementare” come l’elettrone? Eppure in un superconduttore, al di sotto di una certa temperatura critica, si “fonde” con un altro elettrone (coppia di Cooper) e cambia la sua natura statistica, trasformandosi da fermione in bosone (più simile dunque alle “particelle di luce”, i fotoni). Se consideriamo che la maggior parte dei sistemi “interessanti” in fisica, in biologia e nelle scienze socioeconomiche hanno proprio questa natura fortemente sistemica e relazionale, è possibile capire perché la maggior parte dei processi non sono descrivibili e predicibili in dettaglio, ma possiamo conoscerli attraverso descrizioni globali e qualitative, attraverso i vincoli che ne fissano il “ventaglio di possibilità”. Le “delusioni” del Genoma Project e dell’Intelligenza artificiale, per fare due esempi clamorosi, non sarebbero state tali se non fossero state presentate come “teorie del tutto” nei loro rispettivi campi. La mente non è zippabile in un algoritmo astratto e disincarnato, per quanto complicato, e la vita non è solo “deposito di informazioni” ma espressione di queste in un ambiente. In entrambi i casi, non un set di equazioni “tuttologiche”, ma piuttosto descrizioni a posteriori ed emergenza, secondo il principio fondamentale dei sistemi complessi: faccio prima ad osservarlo!
Gli economisti, come i biologi, sanno da sempre queste cose. In effetti, gran parte della “nuova” cultura della complessità è un umile ritorno dei fisici verso queste discipline: se la fisica del ‘700 si è nutrita di astronomia, quella dell’800 di radiazione e materia, e quella del ‘900 degli scambi tra radiazione e materia (la teoria quantistica!), la fisica futura si nutrirà e nutrirà i sistemi viventi ed i sistemi socioeconomici.
L’agente economico non è un punto materiale. Il suo “ottimo” non coincide tout-court con il massimo profitto perché l’agente economico ha una complessa e raffinata “struttura interna” e le sue azioni non sono mosse soltanto da una funzione di utilità unica ed univoca, ma piuttosto da obiettivi alla definizione dei quali contribuiscono la storia del sistema, le sue emozioni ed esperienza, la cultura, il sistema di credenze e di valori. L’economia deve tener conto di questi aspetti. Oggi l’incrocio tra teoria dei giochi, delle decisioni, la fisica dei sistemi collettivi e le neuroscienze è forse l’area più vivace della scienza contemporanea proprio perché ci sta svelando questa complessità dell’agente economico e quanto la sua “razionalità”, più che “limitata” è estesa ed articolata. La comprensione di questa nuova razionalità è premessa indispensabile per una visio economica in grado di costruire un’economia “Oltre l’homo oeconomicus” (L. Becchetti).
L’impresa non è una monade, ma un essere collettivo dotato di sistema cognitivo. Eppure gran parte dei comportamenti, delle scelte e delle politiche d’impresa riflettono assai poco la complessità sociale che la circonda.
L’ipercompetizione non è sviluppo e crescita, è alla lunga l’equivalente della lotta intraspecifica in ecologia dove a rischiare è la stessa esistenza della specie. E da questa visione consegue l’unidimensionalità di alcuni termini e la marginalizzazione di altri. L’innovazione ormai non è più ricerca, ma un esasperato “tirare il collo alla curva logistica” in uno spazio cognitivo limitato come i desideri che induce e frustra. Il problema non è essere il giocatore più bravo, ma inventare nuovi giochi, diversificare le scommesse possibili sul tavolo del tessuto sociale e culturale. Ma per far questo l’impresa deve essere in grado di riflettere in modo multidimensionale la società che attraversa. Altri termini penalizzati sono quelli di sostenibilità, confusa ancora con un ecologismo di maniera, laddove essa richiederebbe quella capacità di teorizzare e gestire processi virtuosi che è stata definita con un neologismo “glocalization”. Basta pensare alla questione energetica, oppure al sistema del microcredito e alle banche etiche. Stesso discorso potrebbe farsi per la cooperazione, che non è l’opposto della competizione, ma ritrovare la ricchezza e la varietà nei processi economici, rinunciando alla logica preda-predatore per guardare all’altro come risorsa, stimolo, complemento indispensabile. Anche il superamento di questa dicotomia ha suggerito un neologismo, “coopetition”.
C’è un filo conduttore che unisce queste parole marginalizzate da un’ottica “totalitaria” e suicida del “profitto”: l’incapacità di riscoprire nel discorso economico un cuore e una mente fortemente relazionali.
Ma, alla fine, continuiamo a praticare ricette di riduzionismo algoritmico semplicemente perché comportano poco sforzo con il massimo spreco di risorse umane e materiali. La complessità implica un grande sforzo creativo per salvaguardare e sviluppare il “bene comune”. Paradossalmente costa di meno costruire e praticare una scienza triste che progettare la bellezza gratuita dei mondi desiderabili.
Questi contenuti sono una sintesi della presentazione del libro di Ignazio Licata “Complessità, un’introduzione semplice”, Duepunti edizioni.