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Chiara Saraceno, in un editoriale su Repubblica del 20 settembre, si scaglia contro la norma che vorrebbe introdurre un limite di età (43 anni) per l’accesso alle pratiche di fecondazione assistita, o almeno alla possibilità di ottenere il rimborso per le stesse. Forse ha ragione, forse no, nel senso che la soglia anagrafica scelta è, evidentemente, opinabile. Ma il punto centrale dell’argomentazione, quello sul quale l’attenzione della studiosa si concentra, è un altro, ed è su questo che Saraceno va completamente fuori strada.

Si può infatti essere d’accordo con la Saraceno quando scrive che la norma in questione, in buona sostanza, sia inutile: la legge 40 già prevede che le donne in menopausa non possano accedere a pratiche di fecondazione, posto che esclude l’eterologa, e dunque la possibilità di utilizzare gameti di donatori. L’unico altro criterio, continua, dovrebbe essere la tutela della salute della donna e del nascituro, restando assorbita in ciò ogni altra considerazione. Fin qui, tutto bene.
Poi però, continua l’articolo, si comincia a dire che la pretesa del legislatore di richiamarsi alla "natura" come criterio per vietare certe scelte, o imporne altre, è indebito, perché la ratio stessa della medicina è in molti casi quella di modificare e contrastare la natura: in altre parole, dire che fare un figlio a 45 – 50 anni sia innaturale, può esser vero statisticamente, ma non dovrebbe esser preso come criterio per inibire tale scelta. Non solo, ma le prassi sociali si modificano nel tempo, e ciò che sembra naturale oggi non lo era ieri e non lo sarà domani. Se oggi è naturale fare un figlio a 30 o 35 anni, ciò non lo era ieri, e le primipare di queste età venivano definite attempate; come può allora il legislatore, sostiene Saraceno, imporre un limite all’età per fare figli, posto che nella nostra storia tale età si è profondamente modificata, tanto che ciò che sarebbe fisiologicamente più naturale (fare un figlio a 16 – 18 anni, quando si è al massimo della fertilità) è anzi considerato quasi disdicevole, o comunque affatto prematuro? Se lo Stato comincia a porre paletti, individuando un’età oltre la quale non è bene fare figli, si comporta da Stato etico, impone una visione del mondo a chi potrebbe non condividerla, evocando fantasmi totalitari.
Ora, è precisamente su questo che Saraceno si sbaglia di grosso.
Primo, non è del tutto vero che la medicina alteri continuamente la natura delle cose, e che perciò il diritto non possa usare tale criterio per disciplinarne l’attività. Che la medicina alteri la natura è infatti verissimo, ma quali alterazioni siano lecite, e quali no, questo è precisamente ciò che spetta al diritto (e all’etica medica) stabilire. Ad esempio, è ovvio che uno sportivo possa alterare, col doping, la sua naturale condizione fisica, per altro potenziandola; ma questo, per il diritto sportivo, non si può fare. E non si può fare non perché in generale ogni alterazione della natura sia illecita, ma perché con il doping si altera in modo pesante la struttura della relazione sportiva (si creano diseguaglianze) e il senso della pratica stessa (non si può più stabilire chi sia il migiore, ma solo chi si sia meglio dopato).
Secondo, se il legislatore interviene per disciplinare la fecondazione assistita, imponendo una soglia anagrafica massima, non sta attuando una legislazione da stato etico. Se lo Stato dicesse che in generale non si possono fare figli dopo i 45 anni, allora sì che ci troveremmo di fronte ad uno stato etico, esattamente come nella Cina che impone il figlio unico (peraltro creando problemi demografici immensi). Ma qui non si discute di questo. Ci si limita a dire che non si può chiedere l’aiuto del SSN per attuare una pratica medica, la fecondazione assistita, che in ragione dell’età dei partner presenta molti profili di problematicità.
Se insomma una coppia attempata, o anche molto attempata, volesse procreare, nessuno lo potrebbe sensatamente impedire. Ciascuno è libero di fare figli all’età che vuole, se ci riesce. Ciò che non si può fare è chiedere l’aiuto dello Stato per fare figli quando il differenziale anagrafico tra i genitori e il nascituro è tale da rappresentare un rischio per il nascituro stesso. Allo stesso modo, infatti, si impedisce l’adozione a coppie di genitori che abbiano troppi, o troppo pochi anni di differenza con l’adottando; se nessuno mi impedisce di fare un figlio a 17 o 18 anni, lo Stato non mi consente però di adottare un bambino a questa età.
Tutto questo significa, in breve, che sostenere che la legge in discussione evochi la minaccia di uno stato etico è una baggianata colossale. Si può certo discutere sul limite (meglio 43 o 45 o 47 anni?) e persino sull’opportunità di una previsione specifica (non dice già tutto la legge 40? Serve proprio un’altra norma?), ma parlare di stato etico significa o non aver capito nulla, o usare argomenti retoricamente efficaci ma poco fondati.
Anche perché, giova sottolinearlo ancora, in tutti questi casi non è lo Stato a volersi infilare sotto le coperte dei cittadini, per controllare come e quando si riproducono; sono proprio i cittadini che, per varie ragioni, chiedono allo Stato (e al SSN) di interessarsi della questione, aiutandoli a realizzare legittime aspirazioni e comprensibili desideri. Ma allora non si può pretendere che il diritto non imponga qualche regola, per tutelare le spettanze di coloro che in ciascun contesto appiaono i puù deboli; tanto più che in queste dinamiche i soggetti da proteggere, i veri soggetti deboli, sono i figli, i nascituri. E non i genitori.

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