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Il disegno di legge sulla «assistenza di fine vita» che è all’attenzione del parlamento di Edimburgo è cosa completamente diversa da quello sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento» che si discute in Italia. L’interpretazione delle parole rivolte dal Papa ai vescovi scozzesi in visita ad Limina non può che tenerne conto.

«Il sostegno all’eutanasia colpisce al cuore la concezione cristiana della dignità della vita umana. I recenti sviluppi in materia di etica medica e alcune delle pratiche promosse nel campo dell’embriologia destano grande preoccupazione. Se l’insegnamento della Chiesa è compromesso, anche leggermente (even slightly), in uno di tali settori, diventa poi difficile difendere la pienezza della dottrina cattolica in modo integrale». La lettura più corretta di questo severo richiamo di Benedetto XVI, almeno per quanto riguarda la frontiera della fine della vita, è senz’altro quella “contestuale”. Il Papa, in questo intervento del 5 febbraio, si rivolgeva ai vescovi scozzesi e il parlamento di Edimburgo sarà presto chiamato ad esprimersi su un disegno di legge che introdurrebbe l’eutanasia nel senso autentico del termine, ovvero la fornitura (provision) e/o la somministrazione (administration) dei «mezzi appropriati a mettere una persona in condizione di morire con dignità e con il minimo di sofferenza». Si tratta di consentire che un essere umano venga deliberatamente ucciso, con le clausole di salvaguardia che vengono abitualmente inserite in questo tipo di leggi per mantenere chiara la distinzione fra questa forma estrema di pietas e il puro e semplice omicidio: è necessario accertarsi che la richiesta sia un atto pienamente consapevole e volontario dell’interessato, libero da ogni influenza indebita (undue); è necessario, inoltre, che a questi requisiti soggettivi corrisponda l’estrema gravità di una sofferenza oggettivamente verificabile e rigorosamente limitata ai casi di una malattia terminale o di una disabilità fisica che renda impossibile una vita indipendente. È insomma di fronte al riconoscimento di un vero e proprio diritto ad essere uccisi – sia pure quando la vita diventa così difficile da sopportare e la morte, anche nel linguaggio comune, può apparire una liberazione – che il Papa richiama i pastori e i fedeli tutti «alla completa fedeltà al Magistero della Chiesa». Non è di questo, tuttavia, che si discute oggi in Italia e rimane dunque aperta l’interpretazione di questa sollecitazione ad un impegno forte per la difesa della vita e della sua dignità quando il vincolo della solidarietà si declina come responsabilità non di uccidere, ma semplicemente di lasciar morire. Perché la fine è comunque vicina e tutto ciò che si può ancora fare è lenire il dolore. Ma anche perché – ed è qui il nodo del conflitto – perché questo è quello che ci chiede o ci aveva chiesto chi soffre.rn

Il Magistero della Chiesa ha riconosciuto da tempo che la difficoltà del giudizio morale, prima ancora di quella del legislatore, nasce dall’impossibilità di risolvere con un taglio netto il problema del rapporto fra tecnica e natura. Il concetto di “morte naturale” è ormai, con tutta evidenza, inutilizzabile. Non si tratta di lasciar fare alla natura, tanto è vero che la morte di una persona cara ci fa soffrire di più quando avviene improvvisamente e i medici arrivano troppo tardi e non possono fare nulla, nulla per opporsi appunto alla natura, ma di riconoscere il limite oltre il quale lo straordinario e benefico potere della scienza rischia di sfigurarsi in un tecnicismo «abusivo». Così si esprimeva la Dichiarazione sull’eutanasia proposta nel 1980 dalla Congregazione per la dottrina della fede, che proseguiva, coerentemente con la dottrina tomista sulla differenza fra la ragione speculativa e quella pratica e dunque con la consapevolezza che la seconda è sempre chiamata a modulare il principio nella concretezza delle situazioni, affidando la responsabilità delle decisioni, quando la complessità del vissuto fa sorgere dubbi e chiede la misura della saggezza e dell’umana comprensione, «in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici». Ciascuno ha il dovere di curarsi, ma accettare la morte, magari anche rinunciando «ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata» per non imporre «oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività», significa in fondo «semplice accettazione della condizione umana». L’alleanza terapeutica è il “luogo” nel quale costruire e verificare questa accettazione e questa alleanza è semplicemente tolta quando si toglie la coscienza del malato che può far sentire la sua voce e vuole che la sua voce sia ascoltata.

Il riconoscimento da parte di tutti del paradigma del consenso informato ha messo definitivamente fuori corso un’altra logora polarizzazione, quella di disponibilità e indisponibilità della vita. Accettare che non si può imporre per legge un trattamento sanitario ad una persona che non lo vuole, anche se si tratta di un trattamento assolutamente ordinario e proporzionato, significa accettare che il limite dell’intervento di altri sul mio corpo, fosse pure a fin di bene, è appunto nella mia disponibilità. E nella mia disponibilità c’è dunque la scelta di lasciare che la morte arrivi prima di quanto sarebbe non solo possibile ma del tutto ragionevole – almeno agli occhi dei più – volere. Una volta ammesso questo, il principio dell’indisponibilità, anche “al di qua” della soglia dell’accanimento terapeutico, è perduto. Resta, quando si tratta non dell’espressione di una volontà attuale ma di una dichiarazione “ora per allora”, la necessità di una riflessione molto attenta e tendenzialmente cauta sui limiti entro i quali una legge potrà chiedere ad un medico di rispettare tale volontà, anziché fare il suo dovere. È una questione ovviamente di grande importanza. Ma è un’altra questione. Anche quando il confronto si stringe sul tema dell’alimentazione e dell’idratazione. Il Codice di deontologia approvato nel dicembre del 2006 già vieta senza equivoci al medico di «assumere iniziative costrittive» o di collaborare «a manovre coattive di nutrizione artificiale» nei confronti di una persona che, debitamente informata sulle conseguenze della sua decisione, comunque rifiuta volontariamente di nutrirsi. Questa semplice operazione di pulizia metodologica potrebbe allentare contrapposizioni artificiose e ridurre gli spazi dell’uso politicamente strumentale di questioni tanto delicate. Ci aiuterebbe soprattutto a superare l’equivoco che si stia parlando di eutanasia. A meno che non si voglia affermare che il principio del consenso informato ne è, in quanto tale, il cavallo di Troia…

rn

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