La crisi dell’Unione Europea
Non vi è dubbio che l’Unione Europea stia attraversando la crisi più profonda dalla sua nascita, per diverse ragioni. La Brexit, qualunque ne sarà l’esito, rappresenta il primo passo indietro nel processo d’integrazione europea. La disuguaglianza in Europa è in aumento, tra ricchi e poveri, nonché tra regioni e paesi.
La prosperità, che un tempo l’Unione europea aveva promesso come base stessa della propria esistenza, è accessibile a un numero sempre minore di persone. Due decenni di politiche di austerità hanno profondamente eroso lo stato sociale che costituiva l’originalità del processo di sviluppo europeo, intaccando diritti del lavoro, diritti sociali e beni comuni. Mentre basta una nave con non più di qualche decina di migranti a bordo per provocare l’impasse dell’intero continente.
Invece che fattore di integrazione, l’Unione europea è oggi soprattutto un motore di divisione; più che un processo capace di guardare al futuro, si presenta come un coacervo di frustrazione sociale, che mette assieme la delegittimazione delle élite, che sinora l’hanno governata, e un bisogno di appartenenza spesso declinato su elementi identitari, xenofobi e razzisti.
La crisi globale, apertasi nel 2008 negli Usa ed esplosa come crisi dei debiti sovrani in Europa nel 2011, appare tutt’altro che superata, al punto che tutti gli indicatori (sul debito, sui derivati, sui paradisi fiscali, sull’economia) che l’avevano prodotta sono di nuovo attivi, se non addirittura peggiorati; la polveriera della finanza globale è rimasta immutata, e oggi sono diverse le scintille che potrebbero farla riesplodere.
Mentre, sul versante sociale, dieci anni di austerità hanno profondamente inciso nella vita delle popolazioni: sono 113 milioni le persone – pari al 25% dell’intera popolazione- che in Europa versano in condizioni di povertà o di esclusione sociale, con un aumento costante nel tempo in tutti i Paesi, e un picco più marcato in Grecia, Spagna e Italia [1].
E’ dentro queste dinamiche che si è progressivamente assistito ad una perdita di legittimità delle élite politiche ed economico-finanziarie, e all’ascesa -in Europa e non solo- di forze politiche che, opponendosi ai diktat monetaristi e finanziari, si sono variamente collocate in un universo politico e culturale definito con diverse declinazioni, dal sovranismo al populismo, al nazionalismo.
Uno scontro tanto acceso dal punto di vista mediatico quanto privo di conflitto politico reale. Nessuno dei contendenti mette, infatti, in discussione la struttura delle politiche liberiste; la competizione avviene solo sui luoghi del comando da cui realizzarle. Una contesa sullo spazio – Europa/Nazione – che lascia immutato il tempo delle scelte, sempre dettate dagli indici di Borsa del giorno successivo.
Fuori da Maastricht
Se è vero che l’Europa unita è stata da sempre pensata come un progetto liberale, è altrettanto vero che, con il Trattato di Maastricht, approvato nel 1992, ogni possibile dialettica tra dottrina liberista e politiche redistributive è stata definitivamente accantonata, per imporre un’integrazione continentale basata unicamente su una ‘economia di mercato aperta e in libera concorrenza’.
Il Trattato di Maastricht costituzionalizza di fatto la dottrina liberista, che, da quel momento, viene ulteriormente irrigidita, attraverso il Patto di Stabilità e Crescita (Trattato di Amsterdam 1997), e resa perpetua, attraverso il Fiscal Compact, siglato nel 2012.
L’insieme dell’architettura iper-finanziarizzata con cui è stata costituita l’Unione Europea pone la stabilità monetaria e finanziaria come un fine ultimo, rispetto al quale diritti, beni comuni e servizi pubblici divengono variabili dipendenti dal mercato.
Proprio per questo, nessuna possibilità alternativa è data, senza una rimessa in discussione radicale dell’attuale Unione Europea, a partire dalla rottura del Trattato di Maastricht e delle sue declinazioni: fine del principio dell’austerità nei bilanci, annullamento dei debiti illegittimi, trasformazione della Banca Centrale Europea in una banca pubblica al servizio dell’interesse generale e della trasformazione ecologica dell’economia, approvazione della Financial Transation Tax sul controllo dei movimenti di capitale.
Per una nuova casa europea ecologica e solidale
La dichiarazione di irriformabilità dell’attuale Unione Europea in nessun caso può tuttavia significare un ritorno ai confini nazionali, peraltro illusorio viste le sfide drammatiche che abbiamo di fronte.
Pensiamo alla questione del cambiamento climatico e alla necessità di azioni globali da dover intraprendere in tempi estremamente rapidi: perché diventi l’occasione di una radicale inversione di rotta e non la nuova prateria della finanziarizzazione, serve una dimensione continentale delle lotte e un respiro internazionale delle rivendicazioni.
Analogo ragionamento riguarda i fenomeni migratori, che avranno dimensioni enormi rispetto agli attuali: vogliamo affrontarli come insidie alla nostra sovranità nazionale o come prodotti dell’ingiustizia climatica e sociale, causata dalla divisione internazionale della ricchezza e del lavoro?
E, ancora, pensiamo alla nuova trasformazione produttiva dell’industria, agricoltura e terziario 4.0. A seconda dei rapporti di forza che si metteranno in campo, può diventare l’occasione per una drastica riduzione dell’orario di lavoro, per la socializzazione del lavoro necessario e per la conquista di un reddito incondizionato di base, oppure trasformarsi in una nuova stagione di disoccupazione di massa e di precarizzazione sociale e del lavoro.
Possiamo affrontarla senza una dimensione almeno europea delle rivendicazioni, o qualcuno pensa che dentro i confini dello Stato nazionale si riusciranno a ottenere più diritti?
Rompere l’attale gabbia dell’Unione Europea è necessario per costruire una nuova casa europea. Entrambi sono processi che possono avvenire solo dal basso, e attraverso forti mobilitazioni dei movimenti sociali, che sappiano porre le questioni della democrazia sostanziale e dell’autogoverno dei beni comuni e della ricchezza sociale come fulcro di un nuovo disegno di società.
O la Borsa o la vita
‘O la borsa o la vita’, intimavano i briganti di inizio ‘900, spuntando da dietro l’angolo di un viottolo di campagna al passaggio della carrozza di un signorotto. Si trattava di poco più che una romantica redistribuzione della ricchezza.
Ben diverso è l’adagio odierno, nel quale il dilemma è nominalmente lo stesso, ma la sostanza molto più devastante: ‘O la Borsa o la vita’. E la maiuscola segna la cifra di un’epoca, nella quale non solo l’economia, bensì la società, la natura e la vita stessa delle persone diventano obiettivi di valorizzazione, da parte di un capitale finanziario che non ha confini, né limiti.
Paradossalmente, proprio questo processo di valorizzazione e mercificazione dell’intera vita delle persone, nel suo superare l’antica divaricazione fra le attività umane, tra produzione economica e riproduzione sociale, tra attività manuali e attività relazionali, costringe i movimenti sociali che vi si oppongono ad approfondire l’analisi e la propria capacità d’azione.
E’ a fronte di questa trasformazione biopolitica del capitalismo, che assume inedita rilevanza l’analisi e la pratica dei movimenti delle donne, che, non per caso, hanno costruito l’unico movimento sociale attualmente in campo con reticolarità locale e diffusione globale e internazionale.
Perché se il conflitto è fra la Borsa e la vita, chi più del movimento delle donne, che ha sempre impostato la propria riflessione teorica e pratica a partire dai corpi, dalle soggettività, dalle relazioni – dalla vita, appunto – può indicare, non solo l’irriducibilità della stessa al dominio dei mercati, ma anche la pluralità dei terreni di liberazione dall’oppressione?
Una visione che, rovesciando la logica del mercato, pone la cura, di sé, degli altri, dei beni comuni e dell’ambiente come le attività fondamentali dell’economia (restituita al suo significato etimologico di ‘cura della casa’), mentre ricolloca denaro e finanza al ruolo di strumenti al servizio della stessa.
Le sfide che abbiamo di fronte richiedono un pensiero lungo.
“Perché salite sui tetti?” fu la domanda posta a un operaio durante l’occupazione della sua fabbrica. “Perché da lì si vede l’orizzonte” fu la risposta.
[1] Eurostat, Europe 2020 indicators – poverty and social exclusion
Per approfondire
Marco Bersani, Europa alla deriva. Una via d’uscita tra establishment e sovranismi, DeriveApprodi, Roma 2019.
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