Sul rapporto tra natura, conoscenza scientifica e tecnologica ed esperienza religiosa si è detto veramente molto. A volte questo rapporto è stato visto come problematico, a volte come conciliabile. Non vorrei sembrare un tecnico becero ma penso che la conoscenza scientifica ed anche quella tecnologica, se vissute in un certo modo, possano essere persino utili ad una vita di fede.

Una persona che intende vivere con consapevolezza la propria esperienza religiosa dovrebbe concentrarsi sull’essenza di questa esperienza.
I fenomenologi della religione ci spiegano che l’essenza del fenomeno religioso è il rapporto di un essere bisognoso di salvezza con una Realtà Ultima percepita appunto come salvifica. Naturalmente sia il concetto di “Realtà Ultima” che quello di “salvezza” vanno intesi come concetti non univoci ma analoghi così da poter ricomprendere le varie esperienze religiose esistenti.
Una persona che si concentra sul bisogno di salvezza, sempre a mio parere, porterà la sua attenzione sul concreto dell’esistenza, sulla fatica, sul dolore dell’esistenza quotidiana propria e degli altri viventi.

Potrebbe essere naturale, per una persona così, sentirsi interpellata dalla conoscenza scientifica proprio perché essa è conoscenza delle leggi che determinano l’esistere, è contatto vero e proprio con il limite che colpisce ogni esistenza e che si manifesta in queste leggi.

La conoscenza scientifica, penso, può essere vista come uno strumento prezioso per rispecchiarsi nella struttura del mondo concreto, del qui e ora di ogni vivente segnato dal limite e bisognoso di salvezza.

Questo tipo di conoscenza può consentire ad una persona religiosa di penetrare in profondità nel mondo concreto, di intuire in modo chiaro e limpido il bisogno universale di salvezza.

Per questo motivo, una intelligenza scientifica del mondo potrebbe essere addirittura connaturale con un’esperienza religiosa.rn

Se poi passiamo a considerare i prodotti della tecnologia credo che questo limite si manifesti in un modo ancora più evidente. Pensiamo ad uno stimolatore cardiaco, il cosiddetto pacemaker. Potremmo essere entusiasti della potenza della nostra tecnica che ci consente di sostenere una vita.Ma potremmo anche renderci umili al pensiero che la nostra vita è dipendente dalle due piccole quantità di litio e iodio che costituiscono gli elettrodi dell’apparecchio. La nostra vita, il nostro tutto appeso a due piccoli inerti.

Se questo non è un percepire quasi con violenza il limite da cui un essere umano è affetto non so proprio che cosa lo possa essere.

Proprio di recente leggevo alcune riflessioni di Umberto Galimberti sul suo oramai famoso e voluminoso “L’uomo nell’età della tecnica”, in particolare leggevo il capitolo quarantacinque dedicato al rapporto tra tecnica e natura. Si tratta di riflessioni allarmate secondo le quali ormai la tecnica vive di vita propria e tutte le coordinate fondamentali di cui l’essere umano si è nutrito finora, l’etica, la storicità, la libertà ed altro sono vanificate di fronte allo strapotere della pura funzionalità tecnica.

Mi chiedevo se il mio modo di vedere la cosa, in qualche misura più ottimista, con la tecnica quasi madre di esperienza religiosa, non fosse superato, quasi patetico.

Ancora non lo so, comunque non credo sia condivisibile da parte di un credente l’ipotesi di Galimberti secondo cui l’essere umano, persa la propria autonomia, è diventato solo una funzione.

E, nel caso in cui questa autonomia umana sia ancora intatta, penso che l’atteggiamento interiore di cui sopra parlavo, che sente nella razionalità tecnica e scientifica essenzialmente una intuizione del limite esistenziale, possa essere qualcosa di fecondo.

Forse questo atteggiamento potrebbe produrre un essere umano umile, razionale e tecnologico sì, ma non in modo onnivoro, un essere umano sensato, sostenibile. Forse si può vagheggiare un illuminismo tecno-scientifico in chiave religiosa? Forse.

rn

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