Durante le lezioni di metodologia statistica che tengo ai ragazzi del corso di laurea in Bioinformatica (in realtà il nome corretto sarebbe ‘Bioinformatics’ ma su questo avvilente esempio di servilismo culturale preferisco sorvolare) alla Università ‘Sapienza’ di Roma, per rendere più vivaci le lezioni, pongo ogni tanto dei quesiti agli studenti.
Qualche giorno fa ho posto la seguente domanda: ‘Secondo voi, il numero del vostro cellulare può essere considerato una variabile quantitativa?’. A beneficio di umanisti, poeti, scienziati della politica e comunque di chi è digiuno di gergo scientifico, per variabile quantitativa si intende una misura su cui si possono applicare le quattro operazioni, allo scopo di ottenere delle informazioni rilevanti.
Per cui il peso è una variabile quantitativa (due buste da un chilo di frutta e verdura hanno un peso totale di due chili) mentre il nome di battesimo non lo è (se a casa mia ho invitato Mario e Giovanni non posso dire che si è presentato uno strano individuo di nome Marianni o Giovario). Ma torniamo alla domanda sul numero di cellulare: da quanto detto in precedenza, si dovrebbe capire che, nonostante il ‘numero di cellulare’ sia espresso in cifre, il suo valore quantitativo non contiene alcuna informazione rilevante: se qualcuno prova a chiamarmi e sbaglia l’ultima cifre digitando 4 invece di 5, non è che risponde mio fratello o mia moglie, e la somma dei numeri di cellulare degli studenti iscritti al corso non genera una ‘chiamata globale’ che risuona nell’aula.
Di fatto, l’uso delle cifre è puramente contingente (si potrebbero usare delle lettere) e ha il solo scopo di individuare uno specifico apparecchio, per cui la risposta corretta sarebbe ‘Il numero di cellulare non è una variabile quantitativa’. Con mia grande sorpresa, gli studenti hanno invece risposto ‘certo che sì!’ Ora, i miei studenti sono tutti molto intelligenti e attenti e, quando ho spiegato la natura del loro abbaglio, non hanno avuto difficoltà a capire quale fosse il problema.
Il punto è che io ho sessanta anni (compiuti da poco) e tengo corsi di statistica da molto tempo e a persone più anziane di loro (ricercatori, dottorandi …) e, tutte le volte che ho posto la stessa domanda, mi ero sempre sentito rispondere in coro ‘certo che no!’.
Questo fatto mi ha indotto a pensare che forse ero stato testimone di una brusca transizione di fase: mentre le volte precedenti l’uditorio (spesso più a digiuno di matematiche dei miei attuali studenti) aveva immediatamente chiaro alla mente che una misura dovesse avere un corrispettivo nel mondo materiale, questa volta il mondo materiale si era come dissolto lasciando isolata la pura sensazione che, visto che si trattava di cifre, allora di sicuro ci si doveva riferire a qualche quantità. Il riferimento alla realtà era perso, rimaneva in vita solo un simulacro digitale privo di riferimento? Oppure (peggio ancora) l’unica realtà era quella generata dalle cifre?
Federigo Enriques, uno dei più grandi matematici italiani, nel 1908 scriveva:’ «Nella vita è importante sviluppare l’attitudine a cogliere le linee generali delle cose, a formarsi traverso i particolari un concetto d’insieme, ad agire con vigore d’iniziativa, coordinando i mezzi allo scopo. L’abito analitico-formale, contratto negli studi universitari, tende a volgere le menti in un senso opposto, a preparare uomini disposti ad un lavoro infecondo, e caratteri fiacchi, incapaci di comprendere le responsabilità sintetiche dell’azione, pronti a rifugiarsi ogni momento nelle scuse della procedura e nell’osservanza della forma».
Questo scritto che, aldilà di una certa retorica tipica di quei tempi, costituiva un forte richiamo alla realtà, mi ha ulteriormente convinto della necessità (per chi di noi ha avuto in sorte di avere avuto un contatto fecondo con il mondo lì fuori) di trasmettere il gusto e il senso della realtà alle giovani generazioni (lo possiamo fare a partire da qualsiasi esperienza e professione), ne va del nostro futuro … è importante, davvero.
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